Tortora e l’omicidio-show

Vedendo su Rai1 la fiction dedicata al calvario giudiziario di Enzo Tortora, sarà inevitabile rammentare il siluro televisivo con il quale il giornalista tornato libero intese colpire, dalla postazione occasionale di Varese, la giustizia italiana che l’aveva stritolato: arrestandolo platealmente, accusandolo di essere uno spacciatore, assolvendolo infine, ma a che prezzo. Lo spunto glielo diede un delitto che, nell’autunno del 1987,  assediava le coscienze pubbliche e private: quello di Lidia Macchi, militante di Cl, uccisa con 26 insospettabili ancora impunite dopo 25 anni. Tortora conduceva dagli studi di Milano un programma che mescolava cronaca e spettacolo, realtà e finzione: si chiamava “Giallo”, tentava di ripetere lo straordinario successo di “Portobello” e dalle sue telecamere sbarcate nella città-giardino una mattina di novembre spuntò, imprevedibile, una provocazione della quale nessuno, nemmeno il suo artefice, poteva immaginare quali conseguenze avrebbe avuto sull’inchiesta vera, in corso in quei mesi. Varese si trovò,  suo malgrado, al centro di un referendum televisivo abilmente architettato per far conoscere al grande pubblico un oggetto allora misterioso: il test del Dna, metodo di indagine sciaguratamente contrabbandato come infallibile. “Cari varesini – annunciò Tortora- dareste il vostro sangue alla legge per smascherare l’assassino di Lidia? Cari varesini, sareste favorevoli a uno screening di massa per conferire identità anagrafica all’impronta genetica (un campione di liquido seminale) lasciato dall’omicida sul cadavere della ragazza? Il doloroso reality ruotava attorno a un filmato da Londra nel quale si raccontava come i 5500 abitanti di un paese del Regno Unito avessero smascherato un assassino feroce quanto quello di Varese sottoponendosi al censimento genetico collettivo. Chiaro l’intento di Tortora: dare una spallata alle miopie e alle arretratezze dei tribunali con i quali aveva un conto in sospeso. Fatto sta che il caso Macchi venne proiettato nell’universo massmediologico: il sondaggio di un settimanale lo collocò, per notorietà, alle spalle dei delitti del mostro di Firenze. E fatto sta che il miraggio televisivo dei test di laboratorio in grado di risolvere un processo per omicidio abbagliò davvero le coscienze, gli investigatori e le toghe lasciando sul campo, alla fine, un presunto innocente: il giovane sacerdote, amico di Lidia, che per allontanare da sé l’amaro calice del sospetto si sottopose al prelievo di sangue e attese invano di essere scagionato. Il confronto genetico purtroppo non si poté fare. Un conto è il test del Dna condotto in laboratorio: riesce sempre, come toccò con mano “La Prealpina” invitata a prestare a Tortora un cronista-cavia (Claudio Del Frate) per inscenare a Londra una sorta di fiction poliziesca. Altro è un processo, con reperti organici e imputati veri: fabbricare assoluzioni e condanne con le macchine della scienza era un inganno allora e rimane un’utopia oggi.

 

Un derby all’Insubria

C’è, per la prima volta, clima di competizione attorno alla scelta del rettore nel giovane ateneo dell’Insubria. E siccome la dialettica rappresenta sempre un valore rispettabile, riscuote un certo interesse l’evento democratico (ci piacerebbe avesse ancora un senso quest’aggettivo, sporcato dai vili abusi della politica). L’evento coinvolge due città , Varese e Como, che hanno in sorte di sperimentare un accadimento al quale non erano avvezze per difetto di presenza autonoma nello scenario accademico nazionale. Fin qui l’università si era a tal punto riconosciuta nel suo fondatore, Renzo Dionigi, da limitarsi a nominarlo, nel 1998 dopo la costituzione dell’ateneo, e a confermarlo nell’incarico, successivamente. Sceso dal trono il monarca assoluto, cui va il merito di aver portato a termine un progetto rimasto pericolosamente in bilico per 25 anni, tre principi, due uomini e una donna, si contendono le chiavi del suo regno. E oggi, dopo la prima fumata nera, si riaprono le urne nelle quali infileranno schede anche rappresentati degli studenti. E’ l’altra novità positiva. C’è un duello all’ultimo voto tra un economista, Matteo Rocca, e un ingegnere informatico, Alberto Coen Porisini. Il secondo ha prevalso sul primo nello scrutinio di ieri l’altro, ma non abbastanza: bisogna rifare tutto da capo perché un rettore si elegge a maggioranza assoluta. La terza candidata, Anna Maria Arcari, anch’essa di area economica, col suo importante viatico si suffragi ricevuti potrebbe, alla fine, determinare l’esito dell’elezione. Sempre che la griglia di partenza non subisca variazioni. Nel backstage dell’ateneo dicono che Coen Porisini rappresenti la continuità col passato e Rocca la rottura, mentre Arcari incarnerebbe l’outsider, non solo perché figura femminile. E dicono che se rottura ci fosse, alla fine, ma la prima votazione è stata di segno contrario, a determinarla sarebbero stati quarti nobili della facoltà di Medicina, cioè colleghi del rettore uscente. Alcuni dei quali non hanno fatto mistero di sostenere Rocca. Ci sta il gioco dei pronostici, chiamiamole pure profezie data la solennità del luogo, quando di mezzo c’è un’elezione autentica, ma ne lasciamo l’esegesi agli addetti ai lavori. Qui ci interessa ribadire alcuni concetti: il nuovo rettore, chiunque esso sia, non dovrà solo governare al meglio una giovane università – tra l’altro affiancato dalla nuova figura del direttore generale, una specie di potente ufficiale in seconda voluto dalla riforma – dovrà pure prodigarsi per la sua sopravvivenza. Non è catastrofismo: il rischio di accorpamenti esiste, con l’aria di spending review. Retrocedere a colonie dopo aver esercitato signora, sarebbe  danno grave. Per gli studenti, si capisce, ma anche per le nuove generazioni di docenti: i “prof” di lungo corso non avrebbero difficoltà ad accasarsi nei vecchi atenei di Milano, Pavia, eccetera.  In questo impegno, non facile e dall’esito non scontato, il nuovo rettore avrà bisogno di avere al suo fianco le due città, le due province (che potrebbero confluire in una sola), le categorie economiche e culturali del territorio con le loro risorse. Una vocazione come quella accademica non si coltiva producendo cattedre, ma generando attrattività, specialità e consenso. E non basta ospitare atenei per ottenere la laurea di città universitaria. Non pare esercizio retorico farne memoria aspettando l’Habemus papam.

Soldi sprecati. E le regioni?

Non ci piacciono le scommesse, forse perché bisogna saperle vincere, ma saremmo disposti a giocarci la camicia sull’annunciata cancellazione delle province. Il pronostico secco è: non se ne farà nulla. Il cerino resterà nella mano di Monti dopo aver bruciato le dita a Berlusconi. La politica non si suicida rinunciando a consuetudini di potere. E mentre si avvicina la data del 14 ottobre entro la quale gli enti morituri dovrebbero piegarsi alla volontà del governo di  ridisegnare la geografia del Paese, non si registrano fin qui fiere adesioni al cambiamento. Solo azioni di resistenza mediatica unite, dietro le quinte, alla preparazione di ricorsi costituzionali. E tuttavia la spada di Damocle calata su una manciata di capoluoghi merita qualche domanda partendo da ciò che ci riguarda da vicino. La nostra provincia sarebbe condannata alla retrocessione per difetto di superficie, non di abitanti. Ecco gli sbocchi  teorici: trasloco dell’intera circoscrizione sotto la signoria di Como, riportando le lancette della storia al 1927 oppure spaccatura in due del territorio, con il Nord che confluisce in una nuova amministrazione cosiddetta “dei laghi” e il Sud, Busto, Saronno, forse Gallarate-Malpensa, che va con Milano, dando impulso all’area metropolitana. La terza, fantasiosa ipotesi è la nascita di un “Canton Varese” per totale annessione alla Svizzera. Ora ci si chiede se le osservazioni di oggi sull’innegabile e consolidata identità, anche economica, di queste contrade non risultino tardive rispetto ai tempi nei quali, a Roma, è stato progettato il riordino di questi enti intermedi. Dov’erano i nostri quando si stabilivano i due parametri, 2500 chilometri metri quadrati di estensione, 350 mila residenti per decidere quali province dovevano sopravvivere e quali no? Perché Ferrara, feudo di Franceschini, dicono i malevoli, è riuscita a evitare la soppressione e Varese, cui pure non è mancata la rappresentanza in questi anni, s’è trovata nella poco simpatica situazione di finire rottamata? Sempre che lo sia davvero, alla fine. Restiamo scettici, l’abbiamo già detto. La questione province inutili non appassiona i soldati semplici, cioè i cittadini, ma solo i loro generali. La truppa è afflitta da altre preoccupazioni, non di forma, se volete di immagine, bensì di sostanza: tasse, posti di lavoro in fumo, futuro incerto. Il comando, invece, recrimina ad alta voce, senza riuscire a infrangere la congiura del silenzio. E dell’indifferenza. Un fatto  potrebbe far pendere i piatti della bilancia dallo parte dei dolenti ed è quanto sta emergendo sul conto delle madri di tutti i pubblici sprechi: le regioni. L’aperitivo da 1450 euro di un politico laziale extralarge conosciuto come “Batman” rappresenta la punta in un iceberg. Sotto il mare sta il resto: i parlamenti regionali nel 2010 ci sono costati un miliardo e 95 milioni, calcolando gli emolumenti folli dei consiglieri, le consulenze esterne, i formidabili apparati della comunicazione e del marketing, i viaggi dei governatori con claque al seguito, gli stipendi degli assunti in forma stabile (40mila esuberi secondo un libro-inchiesta di Pierfrancesco De Robertis).  E per fare cosa si spende questa fortuna? Per 24 giorni di lavoro effettivo in Emilia Romagna, 26 in Lombardia, 14 in Calabria. Per nove leggi regionali licenziate nel 2011 nel Lazio, 26 in Lombardia, 20 in Umbria, 39 in Puglia.  Sorvoliamo sulle fondamentali materie trattate dai legiferanti. Ma siccome il numero di abitanti è un parametro che potrebbe costare il declassamento a un pugno di province, vogliamo parlare di quante anime amministra la regione Basilicata con il contributo di due province? Sì, parliamone: 517mila.

 

Sul set di Mister Ignis. Con Flaherty

Giovanni con la barba incolta e gli occhi gonfi si muove nella vecchia officina della «Elettricità Guido Borghi e figli» da dove tutto è cominciato. Ragnatele ricoprono lampade, attrezzi e banchi di lavoro, c’è l’antico furgone col nome della ditta scritto a mano su una fiancata. A un certo punto la porta si apre e compare Maria, la moglie di Giovanni. «Come hai fatto ad arrivare fin qua?», chiede lui, seduto sul retro del veicolo. «Io so sempre dove cercarti», risponde lei. Ancora lui: «Il tempo qua si è fermato, prova a respirare. Sono gli odori di quando eravamo bambini. Te le ricordi le merende, il burro e il pane con lo zucchero? Siamo diventati vecchi, ma questa officina deve tornare a vivere. Voglio che tutti sappiano da dove vengono i Borghi». Maria abbraccia Giovanni, i due si baciano con tenerezza: «Io non sono ancora preparata a diventare vecchia. Mi devi aiutare. Ormai non facciamo altro che sognare i nostri ricordi». Da fuori campo si leva una voce: «Stooop. È buona, ma la rifacciamo», dice Luciano Manuzzi, il regista. «Tu Giovanni devi accompagnare con lo sguardo Maria mentre si avvicina al furgone e ti cerca. E tu Maria… più morbida. I due nella vita sono stati uniti anche quando sembravano lontani». Un’altra voce da retro: «Ciak Mister Ignis, scena 47. Azione». Silenzio surreale. Sì, Giovanni Borghi sta diventando una fiction per Rai1 e chi vi scrive è l’autore del libro che l’ha ispirata, «Mister Ignis», appunto, edito da Mondadori. Siamo venuti sul set capire, a curiosare, a vedere l’effetto che fa, canterebbe Jannacci.È una magia la scrittura che si materializza in immagini. E affidare un racconto a un attore è come trasmettergli un tuo pensiero attraverso fili invisibili. Bella sensazione. Tu hai scritto duecento pagine, magari in un momento in cui dovevi tener lontana la tristezza, e qui c’è un circo con undici Tir, decine di comparse, migliaia di vestiti di scena, una selva di proiettori, che quelle pagine sta rendendo vive in una film. Stiamo perlustrando con gli occhi del Fanciullino di Pascoli la catena di montaggio della settima arte. Diceva il grande Edoardo: tutto qui è talmente finto da diventare vero. Ma guardiamo la sceneggiatura. Il «re dei frigoriferi» è Lorenzo Flaherty, il bel capitano dei Ris. Sua moglie è Anna Valle, l’ex miss Italia, e questa alla quale assistiamo è una delle scene più intime. Giovanni sente avvicinarsi le ombre del declino dopo essere stato vulcanico protagonista del miracolo industriale italiano, aver edificato fabbriche, forgiato uomini, aperto convitti, inventato la pubblicità mediata dallo sport, organizzato formidabili raid nei casinò della Costa Azzurra. Un giorno va nella vecchia officina di famiglia a ubriacarsi di nostalgia, ma anche di orgoglio, e a sorpresa lo raggiunge la moglie che della vita di un marito così, gagliardo fuori e tenero dentro, è stata silenziosa e discreta custode. È uno dei momenti-chiave della fiction, il punto nel quale gli sceneggiatori immortalano quel senso della famiglia che mille distrazioni mondane non hanno mai fatto venir meno nel leggendario Cumenda. Non dovete stupirvi se siamo a Belgrado, in quella che, regnante Tito, era un’immensa fabbrica di trattori prodotti per tutta l’Europa dell’Este a per il mercato dell’Unione Sovietica. Il luogo è diventato la Cinecittà low cost dei registi italiani, dopo la dolorosa scomposizione della Jugoslavia. Anche «Il Commissario Nardone» è stato girato qui, sulle rive di un Danubio triste, diverso da quello felix di Vienna e Budapest: la guerra ha proiettato sangue e orrore nelle sue acque. Le bombe del ’99 non hanno solo sventrato i palazzi del centro storico, mai ricostruiti per scelta («non si deve dimenticare»), ha pure segnato le coscienze di un popolo, paralizzato le lancette della storia, fermato il tempo ai nostri anni ’70. «Paura d’amare», altra fiction celebre, è un set permanente che ha piantato le tende all’ombra della fortezza, simbolo di Belgrado. Ora tocca a «Mister Ignis» le cui riprese sono cominciate ad agosto e dureranno fino a ottobre inoltrato.

PADRE E FIGLI

Il quartier generale del cast e dintorni è una strada che costeggia uno degli sterminati capannoni. Per ogni attore una roulotte nella quale cambiarsi, specchiarsi, lavarsi. «In fondo siamo come dei minatori», dice uno del set. Parallelo esagerato. Lorenzo Flaherty è Giovanni Borghi in tre versioni: prima giovane e irruente, capelli neri impomatati, pantaloni di velluto e maglione; poi adulto in carriera, giacca, cravatta e gilet, su e giù dal suo elicottero, mattina in ufficio a Comerio, con la segretaria Annamaria (Caterina Ossola nella realtà) interpretata dalla bella e imponente Federica Martinelli, pomeriggio in Fiera a Milano con i commercianti interessati ai suoi fornelli; infine maturo sessantenne, i baffi sale e pepe, il pensiero fisso alla Philips che vuole diventare socia nella sua Ignis. Andreotti lo aveva avvertito: «Si ricordi commendatore che il pesce grande mangia quello piccolo». Anna Valle, moglie del «Giuan», è una bambolina di Capodimonte, dolce e fragile, stretta in un tailleur nero, cappello e veletta. Massimo Dapporto fa Guido senior, il papà di Giovanni e dice che il personaggio gli ispira tanta tenerezza, fiero dei suoi tre figli, con un debole per uno di loro, geniale e matto, generoso e mai fermo. Rodolfo Corsato, altro volto noto delle fiction, interpreta Gaetano, il fratello maggiore di Giovanni, Denis Fasolo, Giuseppe, il fratello minore, morto a 39 anni. Fu per lui, amante del pugilato, che il Cumenda s’avvicinò alle arene dello sport finendo per affiancare alla fabbrica di Comerio una sorta di villaggio olimpico popolato di calciatori, cestisti, ciclisti, canottieri, tennisti, boxeurs. Cesare e i suoi gladiatori, scrisse una volta Indro Montanelli. Greta è una bambina di cinque anni, romana: sulla scena è la piccola Midia, primogenita di Giovanni Borghi, poi c’è Guido da ragazzo, interpretato da Enzo Saponara.

LA BILOCAZIONE

Dietro le quinte un formicaio di attività. Non s’immagina, fino a quando non la si è osservata da vicino, che cos’è l’organizzazione di un set. Renzo Martinelli, il produttore della fiction, resta convinto che il cinema ancora si fa con i grandi artigiani: ciascuno fabbrica un pezzo di scena e tutto parte da un disegno fatto a mano, lo storyboard. Il digitale interviene ad abbellire il tutto, ma ci vuole sempre il talento dell’uomo perché la cattedrale, alla fine, quando viene mostrata al pubblico, risulti splendente. Roberto Andreucci, direttore operativo dell’industria che sta producendo Mister Ignis a Belgrado ci racconta come avverrà, sullo schermo, il miracolo della bilocazione. Nelle due puntate della fiction vedremo Giovanni Borghi nella fabbrica di Cassinetta di Biandronno così come abbiamo visto il commissario Nardone con la sua Balilla nelle vie di Milano. E potremmo giurare che Flaherty e Assisi hanno recitato lì, a Varese e in piazza Duomo. Potenza del computer: fuori il pannello verde che fa da sfondo alle riprese cui abbiamo assistito a Belgrado, dentro le foto e i film con l’ambientazione reale, dei luoghi in cui si sono svolti i fatti. Due colpi di mouse e la simulazione diventa verità.Qua nte impressioni e quanti pensieri sulla favola, ora anche cinematografica, di un operaio diventato re. Girando per le vie di Belgrado ci è tornato alla mente Aza Nikolic, l’allenatore della grande Ignis che ha vinto tutto quello che c’era da vincere nella pallacanestro. Lui era di qui, Giovanni Borghi lo amava, ma quando qualcosa gli andava di traverso, lo mandava al diavolo simpaticamente, mai di presenza, perché soffriva e rispettava l’autorevolezza dello straordinario allenatore: «Quello lì è un comunista», bofonchiava.S ull’aereo di ritorno dalla Serbia c’erano decine di tecnici e operai della Fiat impiegati nelle fabbrica dalle cui catene di montaggio sta uscendo la versione allungata della 500. Quante cose sono cambiate dall’epoca di Borghi. L’Italia dei suoi tempi fabbricava tute blu, quella di oggi esporta attori.

 

A tu per tu con SuperMario

Tre varesini a  Cernobbio: il capo del governo, Mario Monti, il leader dell’opposizione, Roberto Maroni, il padrone di casa, Alfredo Ambrosetti. Neutrale il terzo, anche se amico ed estimatore degli altri due col suo aplomb da baronetto britannico, protagonisti il primo e il secondo di una battaglia politica, esplosa tra sabato e domenica proprio lì, sul quel ramo del lago di Como. Le trame del destino sono curiose, ma così è. E bisognerà riscriverla prima o poi la storia di queste contrade aggiungendovi un capitolo imprevisto e imprevedibile: la terra che ha fabbricato uomini editi all’industria e al commercio, attenti a tenersi alla larga dalle stanze del Palazzo, si è ritagliata un ruolo nelle vicende della Repubblica, ramo dei pubblici poteri. Sempre il fato si sta divertendo, si potrebbe dire se il momento economico del Paese non fosse drammatico, a mescolare le carte di una partita non a tutti simpatica: con un varesino a Palazzo Chigi, Varese rischia di tornare indietro di 85 anni quando il suo territorio era provincia di Como.Di questo e di altro abbiamo parlato con Mario Monti che ha accettato di rispondere alle nostre domande. Senza imbarazzo, col desiderio di spiegare, con la certezza che nella sua Varese qualcuno lo ama. Nonostante tutto. Ecco il resoconto del colloquio realizzato al forum di Cernobbio dal quale l’uomo è uscito con un’investitura che non lo convince affatto. A un “Monti bis” l’interessato non crede.

Presidente, chi segue Cernobbio può affermare che il workshop Ambrosetti è stato amplificatore e cassa di risonanza del suo pensiero. Qui nel 2005 lei ricevette una sorta di investitura per la carriera pubblica. La volevano governatore di BankItalia e pensavano di vederla premier. Qui è nato ieri l’altro il partito del Monti bis. Profezia o caso?

Mi limito a sottolineare l’importanza che ha il Forum Ambrosetti, un’assise fondamentale dove ogni anno si traccia un bilancio sulle cose fatte in campo internazionale, in quello nazionale e dove si esaminano soprattutto le prospettive d’azione per il futuro. Ho sempre partecipato attivamente a questo appuntamento che giudico molto significativo nell’agenda del “fare” per l’Italia. Quanto a speculazioni su questa o quella persona, esse avvengono a Cernobbio, così come in ogni giorno dell’anno e in ogni luogo.

Lo scorso anno qui a Cernobbio lei indicò nella Grande Coalizione una strada per far uscire la politica dall’impasse. È soddisfatto del progetto?

Da non politico, un anno fa domandavo ai rappresentanti dei partiti se non facesse parte del loro mondo il concetto di “pacchetto”. Mi riferivo ad una formula che si appella al senso di responsabilità di tutti, perché fare le riforme è un processo necessario che richiede sacrifici e crea malumori, e prenderne diverse allo stesso tempo permette di mantenere un equilibrio fra i sacrifici richiesti alle varie parti. Da qui il concetto di “armistizio” che lanciavo lo scorso anno, di un vero e proprio “disarmo” multilaterale, idea che mi sembra abbia avuto un certo seguito. Su questa base siamo infatti riusciti a mettere in campo dei pacchetti di misure non indifferenti come il Salva Italia, il Cresci Italia e il Semplifica Italia. Ognuno dei quali avrà accontentato una forza e scontentato un’altra ma nell’insieme si è reso un servizio di efficienza per il paese.

 

Che la sua Varese sia il quartier generale del partito che vuol mandarla a casa le dispiace?  

La Lega fa la propria battaglia politica e il fatto che il suo quartier generale sia a Varese non rappresenta per me un motivo di disagio, anche perché sono moltissime le testimonianze di segno opposto che mi arrivano dai cittadini di Varese. Queste sì mi fanno particolare piacere e colgo l’occasione offerta da La Prealpina per ringraziare tutti i varesini.

Sa che cosa dicono? Un varesino di nascita passerà alla storia come il premier che cancellò la provincia di Varese. Le fa effetto?

E’ vero, la Provincia di Varese non risponde ai requisiti minimi richiesti per le Province. Dunque, sarà soggetta a riordino. Ma qui voglio sottolineare l’importanza della riforma che serve a rendere più moderno lo Stato e il rapporto tra questo e i cittadini. Una riorganizzazione che avrà come perno anche le realtà economiche, a cominciare dai distretti industriali. Ed è giusto che le istituzioni seguano le nuove realtà e si riaggreghino secondo le esigenze anche del mondo produttivo. In questo senso, da varesino, mi auguro che la mia città diventi guida e modello di questo nuovo processo.

Se dovesse indicare una direzione ai varesini sul fronte del riordino delle province indicherebbe Como o Milano?

Credo che queste considerazioni spettino innanzitutto agli attori locali che conoscono meglio di chiunque altro le esigenze del territorio.

Su che cosa deve puntare per crescere questo territorio a lei molto caro? L’industria ha dato molto. Quanto può dare ancora?

La risposta a questa domanda meriterebbe un’analisi approfondita, perché si tratta di un tema cruciale per il futuro di qualsiasi territorio. In termini molto generali, pensando ai punti di forza della città, citerei sicuramente la tradizione imprenditoriale, la vicinanza a Milano e alla Svizzera, l’aeroporto intercontinentale di Malpensa che è una finestra sul mondo, il Centro Ricerche di Ispra e la presenza di grandi imprese italiane e multi-nazionali che, pur con le difficoltà della attuale fase economica, è ancora significativa. Io credo che tanto l’apertura internazionale, quanto la vocazione all’imprenditorialità siano ingredienti indispensabili per la crescita. Ormai il contesto competitivo è il mondo, le opportunità e le minacce sono globali: chi si apre è in grado di comprenderle e anticiparle, chi si chiude non coglie in tempo le prime e subisce le seconde. Per quanto riguarda l’imprenditorialità, si tratta di un orientamento di fondo, che non significa necessariamente creare un’impresa, ma avere la volontà di assumersi dei rischi oggi per ottenere migliori risultati futuri. Non è una scommessa, ma un’assunzione di responsabilità e un cambiamento di mentalità che il mondo globale richiede.

 

Abbiamo rischiato il tracollo: non lo rischiamo più?

Ho voluto ricordare nel mio intervento a Bari, e in seguito proprio al Forum di Cernobbio, che l’Italia un anno fa si trovava in una situazione decisamente peggiore rispetto all’attuale: rischiavamo infatti di finire come la Grecia. Oggi non è più così, ma bisogna sempre mantenere l’attenzione, non allentare la “tensione”  soprattutto per quanto attiene alle finanze pubbliche. Per questo abbiamo, ad esempio improntato una spending review, che identifica e riduce le spese superflue nell’obiettivo di ottimizzare le risorse senza, allo stesso tempo, ridurre i servizi ai cittadini.

Buone notizie da Francoforte, sempre cattive dal fronte dell’economia reale. Come spiegare agli italiani in difficoltà che l’acquisto illimitato di bond da parte della Bce è una vittoria?

Le decisioni del Board della Banca Centrale europea segnano un passo avanti importante verso la governance dell’Unione Europea. Serve ad allentare la tensione sullo spread che a detta di molti, a partire dal governatore della Banca d’Italia, è drogato di almeno 200 punti rispetto ai fondamentali italiani. Naturalmente  questo non risolve il problema delle riforme strutturali che il nostro paese deve attuare. Abbiamo realizzato già la riforma delle pensioni e quella sul lavoro. Siamo sulla buona strada e di questo ci danno atto tutti gli attori internazionali. Ma sbaglieremmo se pensassimo che il cammino è terminato. La strada per il risanamento è appena cominciata.

Sempre nuove province: inevitabile ridurle ma è un pasticcio riordinarle in tempi stretti. Si è  sbagliato a inserire la questione nell’agenda della spending review?

No. È un tema che a più riprese hanno promosso nei vari programmi elettorali anche i partiti politici che appoggiano il governo. Su questo punto non si torna indietro. Entro il 23 ottobre i Cal (i consigli per le autonomie locali) devono presentare le loro proposte di riordino, le Regioni poi le trasmettono al governo. Se non lo fanno, procede l’esecutivo. Il percorso è segnato e si andrà avanti fino in fondo. L’obiettivo resta il dimezzamento delle Province. Si tratta di riscrivere la carta geografica d’Italia ferma da troppi decenni.

Lei con serietà non vuole ipotecare il suo futuro, ma i suoi tifosi premono perché lo faccia. Si è detto a Cernobbio: per candidarsi a premier occorre che il nome Monti sia sulla scheda elettorale. Contropiede?

Ho già detto e ripetuto che il mio orizzonte termina ad aprile 2013. E ripeto: sono sicuro che gli italiani sapranno eleggere un leader politico in grado di continuare il lavoro intrapreso.

Ambrosetti, che la stima e le vuole bene, ha detto : penso che il professor Monti sia la personalità più adatta per il Colle dopo Napolitano. Lei non dirà mai che ha ragione, per eleganza, ma che effetto le fa?

Le parole di Alfredo Ambrosetti sono dettate dall’amicizia che ci lega da molti anni. Gli sono grato per questa dimostrazione di stima, peraltro reciproca. Penso che oggi al Quirinale vi sia la persona più adatta, ed è una grande fortuna per il nostro Paese poter contare sullo straordinario contributo di saggezza ed esperienza del Presidente Napolitano.

 

La versione di Sua Sanità

E nonostante tutto continuavano a chiamarlo Sua Sanità. Un processo a Varese anni addietro, retaggio di quando era direttore generale al “Circolo”: assolto due volte. Un altro alle viste a Milano come conseguenza delle accuse di corruzione ipotizzate nei confronti del suo principale, Formigoni: storia  fresca di stampa. La voglia di dire: “Adesso basta, me ne vado”, Carlo Lucchina l’ha avuta. Aveva confidato agli intimi una domenica bestiale d’inizio estate, quando la sua foto era su tutti i giornali: “Troppo fango. Non è possibile vivere in un Paese dove se decidi qualcosa rischi di passare per ladro. A 63 anni non ho bisogno di rubare. Arrivederci e grazie”. Poi ha riflettuto ed è rimasto dov’era, al vertice della piramide amministrativa di un comparto da 18 miliardi di euro con 125mila addetti e una sventagliata di ospedali, cliniche, laboratori: “Non posso andarmene da perdente, resisto nella speranza che facciano presto”.Il personaggio nasce figlio di panettiere a Casbeno, Varese. Studia, si laurea, è bravo con i bilanci, fa carriera nei ranghi della Provincia. Lo cooptano in Regione quando comincia l’era dei manager cui affidare la guida degli ospedali e naturalmente lo destinano nella sua città. Poi, nel 2002,  arriva la chiamata del “Celeste” che lo promuove dg di tutta la Sanità lombarda. Ciellino? “No. Amico di alcuni ciellini a Varese, questo sì”. Allora com’è andata? “Un’occasione, un passaggio alla Bergamaschi, ma non lo scriva perché non voglio mettere in imbarazzo nessuno. Cercavano  un direttore generale di vertice e il governatore ha scelto me”. E chi gli aveva suggerito il suo nome? “Non lo so”.Crederci o meno, importa poco. Importa che Carlo Lucchina decida di rompere il silenzio davanti a una pizza fumante, a patto che non gliela si faccia restare sullo stomaco parlando solo dell’inchiesta giudiziaria di cui sa bene di non essere il bersaglio. Nel mirino ci sono i 17 anni di formigonismo al Pirellone, virtuosi secondo molti, discutibili secondo altri. Ci sono il celebre tuffo del governatore dove l’acqua è più blu, la barca e le vacanze a sette stelle propiziate, non si sa se anche pagate, dal suo amico Daccò, il sospetto che riconoscendo rimborsi a ospedali accreditati, una parte sia finita dove non doveva.

Già, Daccò. Lei Lucchina lo conoceva?

“Certo. Uno dei tanti erogatori privati che lavorano per e con il sistema sanitario nazionale”.

Un direttore generale che ruolo svolge nei confronti di questi soggetti?

“Mette la firma, previo controllo, su delibere della giunta regionale. Nello specifico si tratta di prestazioni non tariffabili nel settore della riabilitazione complessa e sottolineo complessa. Più che rimborsi a pie’ di lista,  riconoscimento di contributi regionali per servizi a pazienti, in questo caso della Fondazione Maugeri. Per capire di che cosa parliamo, di ogni miliardo di bilancio, l’85% si riferisce alla contabilità di aziende sanitarie pubbliche”

E a lei che cosa contesterebbero?  

“Lo saprò quando avrò, se l’avrò mai, un’informazione di garanzia. Oggi sono iscritto nel registro degli indagati e ho letto sui giornali che cosa s’ipotizza nei confronti del presidente. Corruzione internazionale? Eh no….”

Indagato per la funzione, insomma: responsabile di una sanità lombarda unanimemente definita eccellente e di un modello dai rivali politici considerato logoro. Vogliamo spiegare questa eccellenza sbandierata e questo logoramento presunto?

“Capacità degli uomini e qualità delle strutture. Indiscutibili come provano richieste di ricoveri e di prestazioni provenienti anche dall’estero, non solo da altre regioni. Istituto Tumori e Besta di risonanza mondiale, Ematoncologia punto di riferimento autorevolissimo, decine di specialisti stranieri gratificati dal lavoro e dalla ricerca in strutture lombarde. Questa è l’eccellenza. Il modello? Un’idea vincente di Formigoni. Mettere non in concorrenza, ma in competizione pubblico e privato per soddisfare la domanda, altrimenti irricevibile, della popolazione. Caricate tutto sul pubblico e tutto sul privato e l’edificio crollerà. Lo dicono le leggi di mercato”.

Ma la sanità, lo sappiamo, non risponde sempre a queste leggi. Concorda?

“Certo perché un ospedale non è un’industria. Tu puoi proporre una protesi all’anca al prezzo più basso, ma se l’ortopedico ti dice che con quel materiale lui non lavora perché si accolla il rischio di complicanze, devi accettare la sua versione. Ci fosse un osservatorio dei prezzi sanitari a livello nazionale, avremmo mille problemi in meno. Non c’è. Ci sono i tagli che sono passati sotto silenzio sulla stampa: 16 miliardi in meno dallo Stato alle Regioni”.

Le piace la riforma appena licenziata dal governo Monti? Più medicina di base, meno ospedali…

“Il ministro Balduzzi è un amico personale e mi secca criticare le sue misure. Con quali risorse si finanzia questa svolta? E dov’è scritto che i medici esterni dovranno garantire prestazioni h24? Io ho letto un’altra formula: nell’arco della giornata. Il problema che assilla gli ospedali e quello dei malati cronici. In Lombardia lo stiamo affrontando con una sperimentazione, di concerto con i medici di base, a Milano, a Melegnano, a Bergamo, a Lecco e a Como. Verificheremo i risultati”.

Tempi duri per i piccoli ospedali?

“Se la domanda è: quanti ne chiuderemo, la risposta è: nessuno. Se per tempi duri s’intende eliminare doppioni, effettuare un riordino sul territorio, la risposta è: razionalizzazione inevitabile. Neuro e cardiochirurgie, emodinamica, punti-nascita sono settori che la giunta da deciso di mettere sotto osservazione. Due sale-parto distanti venti chilometri una dall’altra è difficile giustificarle. Salvarle se hanno i numeri, chiuderle se non le hanno. E i numeri, in sanità, sono l’unica garanzia di affidabilità perché più casi si vedono in un reparto, più il paziente è al sicuro”.

Scure sui primariati?

“Penso proprio di sì e la decisione non è mia, ovviamente. Da qui al 2015 la previsione è di 150-200 tagli”.

Parliamo della situazione nella sua città. Cresce, anche se a scoppio ritardato, l’incomprensione a proposito della decisione di investire sul “Del Ponte”, ospedale di mamme e bambini, quando nel vecchio “Circolo” si sono creati spazi da vendere. A domanda di numerosi cittadini, nessuna risposta dell’autorità. Chi più di lei?

“Il polo materno-infantile al “Del Ponte” non è un’operazione edilizia. Se lo fosse, giustificate sarebbero le prese di posizione, appunto tardive. Perché non concentrate tutto al “Circolo” e non vendete l’area liberata di Giubiano? Risparmio di milioni di euro. Perfetto. Ma le scelte sono state altre. L’ospedale dei bambini, che non dovrà avere rilevanza solo cittadina, è altra cosa, separata, rispetto all’ospedale degli adulti. S’è deciso di creare a Varese e Milano due poli specialistici capaci di diventare punto di riferimento per il nord-ovest. E’ una scommessa che tiene conto di un fatto: oggi per le patologie rare e importanti dei bambini le famiglie lombarde si rivolgono al Meyer, al Gaslini di Genova, al Bambin Gesù”.

Ma per cambiare indirizzo, e venire a Varese, occorre che il “Del Ponte” abbia le specialità chirurgiche, la rianimazione, i laboratori. Li avrà?

“Per la Regione il programma è prioritario. E ci sono fior di specialisti pronti a venire a lavorare a Varese e nell’altro polo, quello milanese, frutto di aggregazioni a rete attorno al “Buzzi”. Il “caso Del Ponte” credo sia dovuto a problemi di comunicazione. Forse chi si sta prodigando per quest’opera, calandosi troppo nella parte, ha perso di vista la gerarchia dei ruoli”.   

Che sarà degli scatoloni rimasti vuoti al “Circolo”?

“Credo che la Regione attenda le decisioni urbanistiche del Comune di Varese”.

Piccate reazioni nel Rione Sanità, ramo varesino all’ l’imprevisto, anche da autorevoli leader, trasloco del dg Bergamaschi al Niguarda. Lo chiediamo a lei perché Bergamaschi aveva e ha il marchio Lucchina stampato in fronte.

“E invece non dovreste chiederlo a me”.

Guardi che questa non è una mozione di sfiducia nei confronti del nuovo arrivato Callisto Bravi. Anzi.

“Mi fa piacere perché i varesini avranno modo di conoscere il soggetto. Vi dico solo una cosa: è bergamasco. Cocciuto e decisionista. Ma da varesino me la fate fare una considerazione?”

Perbacco…

“Da varesino vi devo dire che se guardo gli ospedali della nostra zona da Milano, cioè dal quartier generale, mi rendo conto che il loro peso nella classifica regionale si colloca al decimo posto per utenza e quindi rilevanza. Prima vengono, e so di tirarmi addosso le ire dei concittadini: Niguarda, Policlinico, San Matteo di Pavia, Riuniti di Bergamo, Civili di Brescia, Istituto Tumori, Besta, San Gerardo di Monza. Formigoni doveva tamponare una situazione delicata nel più grande ospedale della Lombardia. Ha chiamato uno di cui si fidava”.

 

 

In bici con Montalbano

Vedendolo prendere a forchettate un piatto di spaghetti ai ricci, ci è venuta voglia di chiamarlo a squarciagola come fa Catarella nella fiction tv, catapultandosi fuori dalla sua guardiola di questurino: “Dottòre, dottòre…”  con le “o” allargate al massimo. Ma gli avremmo “scassato i cabbasisi” e ci siamo trattenuti. Era lì in braghe da bagno e camicia aperta su petto, seduto al tavolo di un ristorantino sulla spiaggia; si godeva la vista di un marte superbo, aveva al suo fianco la bella compagna Luisa Ranieri, la figlioletta Emma a una tata creola con i capelli lisci e neri più dell’ebano. Perché rovinare il quadretto intimo? Meglio solo un saluto: “Buongiorno commissario”. E lui, gentile ma indagatore : “Buongiorno, buongiorno. Ciclisti del Nord, eh…” “Beh sì. Anzi no: c’è anche qualche siciliano. Di nascita. Lo può riconoscere da gambe e braccia già abbronzate”. Pedalavamo verso la casa di Montalbano, settimane fa, e vedevamo all’orizzonte, la torre bianca del faro di Punta Secca, tra Ragusa e Agrigento, quando si è materializzato lui “personalmente di persona”: Luca Zingaretti in formato famiglia. Combinate l’incontro e non riesce. Non immaginatelo e vi capita. Preparata la torta, sei giorni a ruota libera tra scogli e ginestre, la ciliegina ce l’ha messa sopra il caso. O il volere degli dei che da queste parti è stampato sulle colonne doriche della Valle dei templi, nel nome della barca dei Malavoglia, la Provvidenza, nel dramma intimo del Bell’Antonio di Brancati. Imprevedibile la vita: stai contemplando da una sella i luoghi di Montalbano, pensi a come ha fatto Andrea Camilleri a riprendere il racconto della sicilianità là dove l’avevano lasciato Pirandello e Verga e un raid in bicicletta, 762 chilometri, diventa improvvisamente un tour di suggestioni letterarie. Di quelle che gli operatori turistici vendono a tedeschi e svedesi dopo che il commissario curioso e geniale ha riempito di sé la fantasia di mezz’Europa, diventando una specie di icona. Ci va di raccontavi l’avventura siciliana a due ruote cominciando da qui. Dalla costa meridionale che nemmeno le sciagurate installazioni di impianti petrolifere, ad Agusta e Gela, sono riuscite a deturpare completamente. Dalle coltivazioni di pomodori che si perdono a vista d’occhio attorno a Pachino e a Capo Passero. Da arance e limoni che marciscono sugli alberi nella piana di Catania: raccoglierli non conviene più. Dal vento di libeccio che soffia tra le bifore di una torre campanaria sotto la quale si apre un rifugio dell’anima: la piazzetta assolata di Marzamemi dove alle dieci del mattino i pescatori si raccontano la notte trascorsa al largo.

I luoghi della fiction

Le storie di Montalbano sono ambientate a queste latitudini, ma sbaglierebbe chi volesse individuare un luogo preciso, unico, perché i produttori hanno costruito il set della fiction pescando il meglio di piazze, municipi e cattedrali in una zona vasta. “Esiste  una Vigàta romanzesca, che è quella del mio paese”, ci spiegò Andrea Camilleri quando venne a Luino per ricevere il premio Chiara alla carriera , “e poi una Vigàta televisiva, provincia di Montelusa, che è la somma di Scicli, Modica, Marinella, Ragusa, Ibla, Punta Secca e il Pisciotto. Ora mi succede che quando scrivo un nuovo episodio rischi di influenzarmi non tanto il commissario della fiction, quanto piuttosto il paesaggio in cui i registi lo fanno muovere”. Natura selvaggia e spicchi di barocco. C’è una località con un nome intrigante: Donnalucata da non confondere con la Donnafugata del Gattopardo, altra città di fantasia, nella realtà Palma di Montechiaro luogo d’origine del titolo feudale della famiglia Tomasi di Lampedusa. Le bici corrono su strade dominate da cartelli di colore marrone che segnalano al viandante un’overdose di arte e di storia. Basta una sosta a una fontana per avvistare, in fondo a un vicolo, la scalinata solenne di una chiesa costruita con la pietra arenaria. E’ sufficiente una deviazione di qualche chilometro per immergersi nel mistero di una riserva naturale. Paesi all’apparenza insignificanti, svuotati dall’emigrazione, abitati completamente solo d’estate quando figli e nipoti tornano a trovare genitori e nonni, nascondono tesori che nessuno è riuscito fin qui a classificare e a valorizzare. E’ la vera ricchezza del Belpaese, quasi sempre trascurata. All’indomani di un’alluvione, di un terremoto, si scopre che basterebbe un terzo delle risorse sacrificate all’edificazione di  ossessionanti rotonde per salvare dalla rovina un palazzo o un campanile destinati a sbriciolarsi se la terra trema. Ma sono lacrime di coccodrillo. Quando non eravamo tutti con l’acqua alla gola, come in questo triste scorcio di terzo millennio, qualcuno diceva che ci sarebbe voluto un secondo piano Marshall per mettere al sicuro immensi patrimoni nel Mezzogiorno d’Italia. Già: il pensiero, prima del big bang finanziario, correva agli americani sbarcati su queste sponde con la regia del Padrino. Non ne parla più nessuno e Cassibile, sfiorata nel nostro viaggio, evoca solo il luogo in cui gli inviati di Badoglio firmarono l’armistizio.

E apparve Malèna

Noto, prima tappa dopo 130 chilometri, è la testimonianza dolorosa di questo genere di ferite ragionevolmente evitabili. Per anni il duomo barocco è rimasto senza testa, con quella cupola dimezzata dal sisma, tuttora impalcature e puntelli sostengono balconi intarsiati  con figure mitologiche nella via Ruggero Settimo che a maggio i commercianti tappezzano di petali di rosa. La chiamano  l’Infiorata. Ci ha incuriosito un giovane che cenava solo, in mezzo alla strada, seduto a una tavola imbandita. L’ultimo dei principi Nicolaci, l’erede dei baroni di Modica? Sì, all’anagrafe del sangue blu, ramo siculo. Ma siccome nemmeno la nobiltà campa d’aria, il convitato di pietra a un certo punto s’è tolto la maschera offrendoci un calice di Nero d’Avola prodotto nella cantina di famiglia. Sull’etichetta della bottiglia un nome inquietante: Lupara. Quante emozioni, cinquanta chilometri prima, tra le viuzze di Ortigia, la parte più antica di Siracusa. Ci saluta una scolaresca che non ha gradito lo scudetto della Signora: chi-non-salta-juventino-è. Ci viene incontro Malèna, come in un’apparizione, mentre attraversiamo la piazza del duomo sulla quale Giuseppe Tornatore fece ancheggiare la donna più bella e desiderata del paese. Renato, anche lui in bicicletta, la spiava, la seguiva, s’infilava nella sua casa per rubarle ogni giorno un capo di biancheria intima stesa nel giardino. Indimenticabile Bellucci. <Qui è la chiave di tutto>, scriveva Goethe da Palermo. E descriveva la Sicilia deposito immenso di sensualità.  All’alba del quarto giorno la compagnia è su di giri: gente tosta, abituata a pedalare sul Brinzio. La montagna con la chioma bianca non è il Mottarone, ma “Iddu” che da un momento all’altro può mettersi a fumare lanciando cenere sul bagnasciuga. Già, fin lì. Non si perde di vista un secondo l’Etna . Spunta da un cespuglio di pistacchi, svetta su una distesa di ginestre, si mette in posa dietro ai ficodindia. E’ lassù che dobbiamo arrivare, allo Stelvio del Sud, quasi duemila metri di quota, ma partendo da un pacifico ground zero. Quanta acqua in una terra che si è solito immaginare arsa. Quanta campagna sterminata, ondulata, pettinata tra le province di Caltanissetta ed Enna. Non s’incontra un’anima, eppure ci dev’essere qualcuno che fatica, magari di notte, per mantenere quell’ordine svizzero. Il lago Pozzillo, in fondo a una valle, dalle parti di Regalbuto, potrebbe sembrare una cartolina dall’Alto Adige se ci fossero le conifere. La strada verso Adrano e Bronte prima scende, poi s’impenna. Cristo s’è fermato a Eboli, ma se avesse proseguito avrebbe scelto Leonforte per dissetarsi a una maestosa fontana barocca e per descrivere contadini di antica sapienza e paziente dolore. La tappa di un viaggio al principio del tempo.

Com’è dura la salita    

Fine della poesia alle dieci del mattino del sesto giorno: cominciano i tornanti sopra Zafferana Etnea. “Ciao stile”, dicevano i vecchi ciclisti. Tradotto: d’ora in poi conta solo non mollare, il resto è roba da filosofi. Percorso vigliacco: ti affascina con scorci sublimi, ti invoglia con falsi piani afrodisiaci, poi, di punto in bianco, ti mette un coltello nel costato. Inutile fingere di non vedere il compagno che sembra averne di più. La frase di circostanza “io vado col mio passo” è una balla grossa come una casa. Nemici mai, in bicicletta, rivali sempre in una guerra psicologica non dichiarata, anzi negata. Il diario di bordo prevede due ore e venti di ascensione, pena minima, e 1310 metri di dislivello. Asfalto buono, cielo coperto, per fortuna, nessun cartello che dica tra quanto finisce l’autoflagellazione. Sai che sulla carta sono venti chilometri prima di scollinare al rifugio Sapienza nel mare nero del vulcano più ribelle d’Italia. Morale: nessun disperso, tutti in cima con le proprie gambe. Baci e abbracci, fotografie e sfottò. Poi giù a rotta di collo per 30 chilometri. Traguardo in una gelateria sul lungomare di Catania. Personaggi e interpreti della commedia, ciascuno col suo nome di battaglia: Mariano lo schiacciasassi, Paolo il pivot, Mario nonno Libero, Mimmo il juke box, Vittorio la locomotiva, Carmelo il reduce, Roberto il freddo, Daniele la pantera rosa. L’autore di queste righe si rifugia in Pirandello: uno, nessuno, centomila.

 

L’ultimo di Nikolajevka

Diceva, tra le sue vigne, che la vera festa nazionale di questo Paese doveva essere il 4 Novembre, anniversario della battaglia di Vittorio Veneto, 1918. E spiegava il perché: quella era stata la Vittoria di tutti, mentre alla fine della seconda guerra mondiale l’Italia aveva fatto festa divisa. Ma si rendeva conto di come certi argomenti appassionassero poco, ormai, le nuove generazioni e allora da quel rifugio dell’anima sulle colline bresciane, l’ultimo eroe di Nikolajevka si rituffava nei ricordi della campagna di Russia dalla quale erano tornati a casa in pochi. Lui, ferito, su una slitta trascinata dai suoi alpini, con lui Rigoni Stern, don Gnocchi, l’attendente Rossi, il caporale Lancini. Tutti  personaggi di una Spoon River patriottica nella quale adesso c’è anche il sottotenente medico Nelson Cenci scomparso due giorni fa a 93 anni. L’uomo era romagnolo di nascita, varesino d’adozione. Due estati fa a Cologne Bresciano, dove produceva spumanti, ci spiegò così perché si chiamava Nelson: “A Rimini si davano nomi strani”. Aria frizzante, corsi d’acqua e vigneti che punteggiano il triangolo d’oro della Franciacorta, l’alpino col camice bianco si presentò al vecchi amico in braghe gialle e camiciola sbottonata sul petto che aveva schivato le pallottole dei cecchini. In una stanza di una cascina del ‘600, cappelli con la penna, gagliardetti, un parabellum di quei tragici giorni nella steppa. In un angolo c’era una scrivania alla quale Cenci si sedeva dopo il tramonto per buttare giù memorie destinate a  diventare libri. “Il ritorno”, diario della disastrosa ritirata, “Accanto al camino”, resoconto della giovinezza trascorsa a Rimini, il luogo di nascita, poi, con la mamma, sull’appenino tosco-emiliano, prima dell’approdo all’ospedale di Varese dove cominciò l’avventura del grande clinico durata fino all’ultimo scorcio degli anni ’70. L’ex primario aveva messo radici nel luogo di cui era nativo l’alpino cui doveva la vita. Imbottigliava vino rosso, che non poteva che chiamarsi “Il ritorno”, e bollicine con il marchio dell’azienda, La Boscaiola. Lo aiutava la figlia Giuliana alla quale Nelson aveva passato il testimone industriale per vivere da giovanotto romantico la sua vecchiaia, che era solo un modo di dire anagrafico. Improvvisò per gli ospiti un rancio prelibato, ci portò a visitare le cantine, spiegandoci i segreti dell’arte degli avi, ci parlò dei raduni con i suoi alpini in quella piccola patria che odorava di mosto. Di tanto lo invitano, per una presentazione o una conferenza, e lui andava, parlava a braccio, si commuoveva. L’Italia che ha appena compiuto 150 anni non dimenticherà, ci auguriamo, gli uomini che l’hanno fatta diventare grande.