La congiura della normalità

Tutto tranquillo, tutto silente, tutto insospettabile. Fino a quando il palcoscenico della “normalità” si sfonda e precipita il destino di due coniugi anziani nel cupo girone dei delitti orrendi. Il parente di un vicino di casa è sotto interrogatorio, il figlio, che ha scoperto i due cadaveri, ha avuto un’informazione di garanzia puramente formale. Capita sempre a gennaio, come se una maledizione astrale condannasse il mese più freddo a prestare i suoi giorni alle esercitazioni di odio. Ma questa non sembra una tragedia familiare e lo diciamo con relativo sollievo. Questa è una storia da quattro soldi. Niente a che vedere con la strage dei fornai, Cadrezzate, Epifania del 1998, quando un ragazzo “normalissimo” uccise la mamma, il papà, il fratello.
Sta scontando trent’anni e telefona dal carcere per sentire come sta la zia. E nessun parallelo con un’altra Epifania, 1987, entrata nel calendario delle cronaca giudiziaria a queste latitudini come l’anniversario delle ventionove coltellate sul corpo di Lidia Macchi, la studentessa che militava in Comunione Liberazione e scriveva poesie. Sempre senza un volto certo l’assassino tra sorprese investigative e polemiche mediatiche. Ogni omicidio fa storia a sè.
Salta all’occhio tuttavia l’inquietante “normalità” ritagliata addosso, col senno di poi, a vittime e carnefici. Ha detto un amico di marito e moglie: «Li ho visti l’ultima volta domenica in chiesa. Erano tranquilli, non avevano preoccupazioni, erano “normali”, sereni come sempre». Ed eccola la diagnosi sociologica, per ora solo ipotizzata nel caso agghiacciante di Venegono: male di vivere, una metastasi che corrode organismi apparentemente sani. In ciascuno c’è un fondo di mistero che nessuno può perlustrare. Non c’entra la follia conclamata, non c’entra il crimine organizzato con le sue leggi crudeli, non c’entra nemmeno l’extracomunitario, molte volte colpevole, divenuto in questi anni disperati il Cireneo sulle cui spalle è stata caricata la croce individuale per scaricare la coscienza collettiva.
C’entrano ragionevoli mostri, come li chiama la criminologia, capaci di trasformare la quotidianità nel palcoscenico di gesti estremi. Tutto bene all’esterno, tutto marcio dentro, nel fondo di un’anima disperata nella quale, nascosta, imperscrutabile, foderata di insospettabili maniere, cova a lungo innocua una miscela di veleni che a un certo punto esplode,tra un pianerottolo e l’altro della medesima abitazione.
Il Viminale ha diffuso i dati di una ricerca solo in parte consolante: sono in calo gli omicidi commessi in Italia, ma aumenta in maniera vertiginosa in numero di quelli avvenuti tra mura domestiche. E’ un fatto che le zone statisticamente più agiate appaiono le più esposte al virus.
Da qualche tempo il Varesotto è pane per criminologi che tentano di interpretare la crudeltà delle mani mozzate (omicidio di Cocquio Trevisago) e per farlo scomodano rituali tipici di altre culture; che cercano di leggere nella psiche di un ragazzino cui non è bastato finire con una sprangata il compagno di giochi Dean, lo ha pure seppellito nell’orto di casa a Varese quando forse non era ancora morto; che si arrovellano, infine, appresso ad assassini travestiti da Bestie di Satana (Golasecca) colpevoli di aver impastato sangue e terriccio per nascondere in un bosco il cadavere di un’amica. Già: è stata questa brutta vicenda a farci prendere confidenza col furore dei gesti estremi, con un narcisismo maligno e irrefrenabile. Ci sono stati e ci sono ancora nelle nostre contrade i sussulti di mafie radicatesi dove il benessere dioffuso garantisce lavoro. «Finchè si ammazzano tra di loro», si diceva. E la vita quotidiana continuava nella consapevolezza, tra i buoni, di essere al riparo dal contagio dei cattivi.  Scrivere che accade tutto ora è falso. Varese, via Valgella, dove un folle uccise la moglie e il figlioletto del suo datore di lavoro; Morazzone, dove un balordo si vendicò della famiglia della fidanzata che lo respingeva; Ferrera, dove un ragazzone strozzò con un cavetto d’acciaio padre e madre; Gavirate, dove un papà si sbarazzò con una fucilata del figlio psicolabile, sono i luoghi di altrettanti massacri di una quindicina d’anni fa. Di diverso, rispetto a un passato non remoto, c’è solo il naufragio della speranza in un riscatto dell’anima, della pietà, dei valori. Di inquietante c’è che nessuna ronda sembra poter scongiurare l’anestesia dei sentimenti umani.

Lasciate in pace il Nazareno

Che tristezza quel nome solenne, Nazareno, accostato a un affare di bottega politica: il patto segreto tra due premier, uno ufficiale, il ragazzo di Firenze che fila come una navicella spaziale, l’altro ufficioso, il grande vecchio di Arcore, che sta per  tornare in orbita. Anzi ci è tornato. E che brutto effetto vedere i nemici di quel matrimonio misto utilizzare la stessa icona con davanti una particella negativista: non Nazareno. Così è nel periodo più sciagurato della storia dei partiti: s’alternano all’infinito alleanze e colpi bassi, tradimenti e divisioni, congiure e vendette. In Italia vantiamo rivalità leggendarie: Coppi e Bartali, Togliatti e De Gasperi, De Benedetti e Berlusconi, Eduardo e Peppino. Ma se pensiamo a Matteo e a Silvio ci vengono alla mente altri paragoni: Tognazzi e Vianello, Andreotti ed Evangelisti, il Gatto e la Volpe. Non era mai accaduto di eleggere il presidente della Repubblica sotto le insegne di una associazione in partecipazione che è un contratto previsto dal codice civile: il socio di maggioranza è uno, gli altri entrano nella compagine temporaneamente, come consulenti esterni, per chiudere la partita di alcuni progetti. Tornando a noi, il varo di riforme giudicate impellenti e il passaggio strategico della nomina di un personaggio presentabile da insediare in cima al colle più famoso di Roma. Si dirà che la politica è un compromesso: quello storico dei tempi di Moro e Berlinguer sdoganò la possibilità di avvicinare due ideologie che sembravano condannate a viaggiare su binari paralleli e mai convergenti. E’ cambiato il mondo: oggi il Nazareno, per la storia degli attori in palcoscenico, non è un passo avanti alla ricerca del nuovo, ma uno indietro in funzione del già visto. Cioè del non inedito. D’altra parte mettiamoci nei panni di Renzi: con quali partner tentare di cambiare verso al Paese? Con i Cinque stelle? Ci ha provato Bersani, si è scottato le dita e ha dovuto lasciare. Con la Lega di Salvini? Non si è ben capito dove va e con chi mentre si è capito benissimo che le rende nei sondaggi interpretare la ballata del corpo sciolto. Renzi s’è inventato una ditta di rottamazione per casa propria, ma ha risvegliato l’unico che si pensava dovessero rottamare in casa d’altri: Berlusconi. Legittima difesa o stato di necessità al cospetto di un nemico? Non sapremmo dire. Sappiamo vedere che re Silvio è diventato l’ago della bilancia del governo. Come il suo maestro Bettino Craxi. In questo clima da sabato del villaggio, se pensiamo al successore di Giorgio Napolitano, di guerra civile, se consideriamo le resistenze a liquidare il logoro binomio destra-sinistra, dovremmo concludere che l’Italia dice di cambiare ed è sempre la stessa. Parentesi: avete capito qualcosa dell’Italicum? Noi una cosa soltanto: quando incontreremo per strada qualcuno che ci dirà: “Lei non sa chi sono io” non potremo che dargli ragione. E’ diventato parlamentare a nostra insaputa, nominato, non eletto dal popolo sovrano. Salvo qualche concessione all’utilizzo delle preferenze per mettere a libro-paga una manciata di peones. La situazione della politica non è buona, canterebbe Celentano. Bisognerebbe che il nuovo capo dello Stato fosse scelto non tra i camerieri di bottega, ma tra i signori della Repubblica. Napolitano è salito al Colle nella prima condizione e ne è uscito a testa alta nella seconda. I due premier hanno nei loro elenchi qualcuno capace di salvare i cavoli loro e la capra del Paese? Ne dubitiamo ma dobbiamo augurarcelo.Nell’attesa, e ammesso che il matrimonio misto si sciolga dopo gli stringenti adempimenti istituzionali, formuliamo una preghiera: lasciate in pace il Nazareno.

 

 

 

 

 

E se il franco basso fosse voglia d’Europa?

Interno banca, piani alti, qualche giorno dopo l’Epifania. Non diciamo la città, comunque dalle nostre parti. “E se comprassi un po’ di franchi svizzeri, legalmente s’intende? Ho sentito che ci potrebbe essere presto la parità con l’euro”, dice un cliente di mezza età, stanco delle solite obbligazioni e dei soliti titoli dei stato nazionali ormai improduttivi come una gatta sterilizzata. Il tipo non doveva essere un re di danari, sennò non sarebbe stato lì personalmente di persona a mendicare qualche centesimo di profitto in più. Maledetto Mario Monti che s’è inventato una finanziaria alla vaselina chiamandola soavemente imposta di bollo. Due rapine secche, una a gennaio, l’altra a giugno, su tutte le rendite da risparmio. Nemmeno aveva l’aria, quel signore, di uno col malloppo oltre confine dai tempi in cui il franco valeva 162 lire italiane, parliamo di quarant’anni fa o su di lì. Il funzionario lo scruta: “Io non lo farei. Si scordi la parità, amico mio. Il cambio è stabile e da lì non si muove”. Impreparato l’addetto ai lavori? No, poveretto. Uno dei migliori sulla piazza. Il fatto è che gli gnomi rossocrociati hanno fatto come Totti quando infila il portiere sollevando la palla a cucchiaio. Allineando il valore del franco a quello dell’euro, facendo prove tecniche di moneta unica – e chissà che non stiano meditando che la neutralità non paga più, l’isolamento nemmeno – gli svizzeri hanno colto di sorpresa Wall Street, figuriamoci se poteva prevedere la loro mossa l’onesto travet di provincia. E siamo ai conti della serva perché solo quelli ci sentiamo di fare. Turi Lo Presti, cameriere di Viggiù, impiegato in una pizzeria di Rancate, si frega le mani: guadagnava l’equivalente di 1600 euro, in un amen è salito a duemila. Idem per Marisa Chiofaletti, infermiera di Luino che lavora al Cardiocentro di Lugano. Musi lunghi al valico: fare il pieno a Stabio o a Brusino partendo da Varese, non conviene più. La benzina scontata al di qua della sbarra, adesso anche il diesel, ha annullato il vantaggio. Felici i ticinesi che già da ieri sono tornati ad affollare i supermercati nostrani, anche per comprare la frutta e la carne. Che cosa è saltato in mente agli svizzeri? Hanno pensato alle grandi manovre che potrebbero incoraggiare i grandi esportatori di soldi a riportare il gruzzolo in Italia, pagando minori sanzioni a questo punto? Mica sono masochisti fino a questo punto. E allora bisogna spogliarsi dei panni della casalinga di Voghera e pensare ai misteri, non della fede, ma della Borsa, che sette anni fa fecero dire a paludati guru radunati a Cernobbio: l’economia americana è sana come un pesce. Pochi giorni dopo le agenzie diffondevano le fotografie di impiegati della Lehman Brothers in fuga con le loro scartoffie dagli uffici di una delle banche più potenti del mondo colpita a morte da un infarto. La finanza segue percorsi imperscrutabili anche per quelli che dicono di vedere oltre il muro. Se è vero che la massa di liquidità depositata nei forzieri dei cinque continenti vale tre volte il pil del pianeta, cioè la somma delle attività di industria, commercio e servizi, ha ragione un nostro vicino di casa, rigorosamente aziendalista, quando afferma: il mercato non lo guidano i cacciatori di affari difficili, legati al lavoro all’impresa, ma i pescecani che si nutrono della ricchezza facile fondata sulla speculazione. Modifichi per un po’ il cambio delle monete, schiacciando due tasti su una tastiera, e produci montagne di utili. Dopo qualche mese fai un’operazione uguale e contraria e muovi di nuovo quantità immense di risorse. Proviamo a pensare bene, anche se pensando male si commette peccato, ma si azzecca. Nella marcia di avvicinamento del franco all’euro (e al dollaro) potrebbe celarsi il “pentimento” di uno Stato-cassaforte. Per decenni l’incertezza regnante altrove ha fatto della Svizzera il più affidabile dei rifugi finanziari. Ma che la confederazione elvetica, maestra di internazionalità, non diventi prima o poi partner importante dell’Europa integrata è un paradosso senza futuro. Visionari? Forse sì. O forse no.

Napisan e l’ultimo comunista di Varese

Giorgio Napolitano è contento di tornare a casa. Anche l’86 per cento degli italiani, secondo un sondaggio. Ma non si deve leggere vilipendio e sollievo in questo responso cinico, piuttosto speranza e fiducia: il Paese non abbia più a vivere l’emergenza costituzionale toccata in sorte all’undicesimo presidente della Repubblica, il primo della storia invitato a restare ancora sul Colle dal sarebbe dovuto scendere due anni fa. Quante curve pericolose lungo la strada percorsa da Napolitano, quanti accelerazioni brusche, frenate non previste, quante sterzate audaci per evitare, secondo il pilota, che la macchina dello Stato capotasse. Abbiamo avuto a sua insaputa, anche nostra, il capo di una repubblica di tipo presidenziale? In ogni caso è stato un esperimento dettato la circostanze anche drammatiche. Qualcuno avrebbe fatto meglio di Napisan, per citare la Litizzetto, in quell’enorme guazzabuglio che è stata, ed è la politica italiana in questi anni di nevrosi e turbolenze, di parole e inconcludenze? Re Giorgio – e la dice lunga il fatto che così l’abbiano battezzato i giornali – intanto esce dalla cronaca e si consegna alla storia. Solo la storia, a tempo debito, potrà stabilire se egli è stato il nemico del Giaguaro o l’amico di coloro che lo volevano smacchiare e alla fine ce l’hanno fatta. Correva l’anno 2011:  Silvio Berlusconi in lavatrice, al suo posto Mario Monti di cui Napolitano, regista del bucato, si ritrova collega da oggi sui banchi dei senatori a vita. Sembra il primo capriccio del destino che sarebbe stato diverso se il Professore, somministrate le sue purghe agli italiani, non fosse sciaguratamente “salito” in politica. Ma forse è meglio che sia andata così: la figura del successore è tutta la costruire. La verità, se vogliamo dirla tutta, è che il Giaguaro si è smacchiato da solo. Salutando Napolitano da qui, non sembra inutile ricordare che egli scelse Varese per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Era il primo giorno di primavera del 2011 e per fare bella figura con l’illustre ospite, la città cercò spunti nel suo passato non potendo averne di ugualmente significativi nel presente. Al capo dello Stato i varesini narrarono le vicende di un caposaldo garibaldino carico di onori per aver sconfitto gli austriaci nella battaglia di Biumo, 1859;  segnalarono le innumerevoli testimonianze della semenza sparsa da Garibaldi nel Varesotto prima della fuga in Svizzera; parlarono di Ernesto Cairoli, cui è intitolato il liceo classico del capoluogo, come di una specie di soldato Ryan. Il ragazzo non potè essere salvato, al pari dell’eroe di Spielberg; morì da eroe a 27 anni sotto le baionette del generale Urban. E a sua madre si vide recapitare a casa il più terribile degli annunci, oltre che per Ernesto, anche per altri tre figli, tutti morti in guerra: Luigi, Enrico, Giovanni. La storia dei fratelli Cairoli ha un alto valore simbolico e Varese fu fiera di ricordarla al presidente in un’atmosfera di generale orgoglio che non era stata messa in preventivo. Si era temuto, anzi, qualche strappo quando, per conquistare un titolo sui giornali, i leghisti col loro sindaco avevano detto: Napolitano in visita? Sarà un giorno come un altro: in municipio si lavorerà. Che esagerazione! E invece Varese si comportò benissimo, primo tra tutti il sindaco con la fascia tricolore alla vita e il passo felpato accanto al simbolo di un’Italia che in 150 anni, nonostante tutto, è rimasta intera.C’è una scenetta che Napolitano avrà dimenticato, ma i presenti alla cerimonia no. A un certo Giuseppe Pitarresi, il consigliere comunale con la kefiah, riuscì ad avvicinarsi al presidente e gli disse: “Giorgio, io a Palazzo Estense rappresento il partito comunista”. E Giorgio, con aria rassegnata: “Ancora!”

 

Sanità lombarda, quello che la riforma non dice

La riforma della sanità lombarda firmata Roberto Maroni è una sfida coraggiosa. Quando si parte dal gradino di una sbandierata eccellenza è difficile salire, più facile scendere. Ma questo è un pericolo che nessuno osa ipotizzare. Se la qualità del servizio offerto fosse riparametrata al ribasso, la delusione colpirebbe non la Lombardia, ma il Paese intero: sono circa 500mila, infatti, i pendolari della salute che ogni anno salgono su un treno o su un aereo per farsi curare a Milano, a Bergamo, a Brescia, a Varese. La corruzione, i privilegi concessi ad alcuni centri gestiti da amici degli amici, il caso inquietante della clinica Santa Rita, dove le sale operatorie non funzionavano per necessità ma spesso per lucro, non hanno depauperato la fiducia riposta nelle nostre strutture. Se c è stato del marcio in Lombardia – e vorremmo essere certi di poter coniugare il verbo al passato – scandali veri o presunti non hanno messo in discussione il primato del sistema. Come mantenerlo tale questo primato, come abbassare i giri del motore, senza fargli perdere efficienza e potenza? Fabio Rizzi, medico varesino, presidente della commissione regionale della sanità, ha anticipato alla Prealpina nei giorni scorsi, le linee guida delle riforma. Asciugando il numero dei piccoli ministeri della salute, le Asl, accorpando aziende ospedaliere, trasferendo dagli ospedali al territorio prestazioni e cure, unificando sanità e welfare, cioè medicina e società, la macchina viaggerà di più e consumerà meno carburante.  Avremo reparti di pronto soccorso meno intasati, minori attese  per visite e prestazioni, sentiremo di meno la carenza epocale di posti-letto dato che gli ospedali tra gli anni ’80 e ’90 si sono notevolmente accorciati e indietro non si torna. Diagnosi e prognosi sono di pubblico dominio da tempo, ma in un Paese nel quale la distanza più breve tra due punti non è una linea retta, bensì un arabesco, stampare un referto, nero su bianco, è un ottimo risultato. Già s’avvertono echi di polemiche, qualcuno da scontentare ci sarà sempre, l’importante è procedere. Quello che la riforma non svela, almeno fin qui, è che cosa accadrà nella quotidianità della gestione. Maroni tempo fa reagì  all’annuncio di nuovi tagli ai bilanci della sanità regionale dicendo che avrebbe chiuso dieci ospedali. Era una minaccia, un impeto d’ira, una reazione a qualcosa di ingiusto. Ma se l’invettiva del governatore diventasse un progetto, studiato scientificamente, concordato con le amministrazioni locali, elaborato da consulenti neutrali, non condizionato dagli umori di questo o quel consiglio comunale, ci sarebbe da compiacersi, non da preoccuparsi. Chiudere è un modo di dire. In Italia al massimo si accosta qualche portone. Ma servono due tre-punti nascita in un raggio di venti chilometri? Serve che gli ospedali periferici replichino in sedicesimo specializzazioni già offerte da quelli centrali? Serve che tutti facciano tutto, senza una rigorosa distribuzione delle competenze, all’ombra di doppioni territoriali, quando non sono triploni? Non serve. Anche questo è di pubblico dominio. La sanità è stata affidata a manager che nell’industria privata rispondono delle loro decisioni al mercato, giudice supremo, e a un azionista di controllo, che è il cassiere. Hanno carta bianca, se si rivelano incapaci vengono mandati via. La rivoluzione nelle aziende ospedaliere e sanitarie è stata lasciata a metà: gli ordini ha continuato a darli un’entità indistinta che da lontano vede e non provvede. Per questo parlavamo all’inizio di sfida coraggiosa. Perché è venuto il momento di provvedere.