Anche se morte vivranno

 

Mettiamola così: l’elezione del consiglio provinciale, assemblea di un ente che è stato abolito, ma c’è ancora, assomiglia al gioco del Monopoli. Chi sta al tavolo compra e vende case su un cartellone e decide chi le deve abitare. Agisce come se fosse Donald Trump, in realtà non ha un euro in tasca e non l’avrà, bisogna dirlo, nemmeno se dovesse diventare proprietario dell’immobile. Cioè nel caso s’accomodasse su una poltrona. Ma allora perché tutto questo movimento attorno a una fiction che a Varese coinvolge 5 liste, 78 candidati, 16 posti a sedere e più di 1700 elettori? Perché da fine agosto non è passata settimana in cui qualcuno dal Palazzo non abbia inviato un sms ricordando la data in cui si apriranno le urne, il 15 ottobre? Semplice: perché, come il Monopoli, il gioco è di potere. E con l’aria che tira nel Paese, questo potere ha bisogno di essere misurato giorno per giorno. Quale occasione più propizia di un appuntamento elettorale, che esclude il popolo e interessa solo le segreterie dei partiti, per usare il termometro? A Varese c’è appena stato un ribaltone: hanno perso le Comunali forze politiche che avevano governato ininterrottamente larghe fette del territorio da 23 anni. Il fatto  ha avuto risonanza nazionale perché si è verificato a queste latitudini e non in altre, dove è accaduto esattamente il contrario. Ecco spiegato l’arcano. Il voto per Villa Recalcati, espresso non da cittadini ma da assessori e sindaci in carica, è una sorta di allenamento in vista di elezioni nazionali che potrebbero essere anticipate. Dipende dall’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre, quello sì aperto al popolo. Dovrebbe essere un momento di democrazia reale: si chiede alle gente di decidere se andare avanti con quel mostro a due teste che è il bicameralismo oppure cambiare rotta con regole parlamentari più snelle e si spera più efficienti. In realtà è un derby giocato sulla testa di Renzi. Che non fa nulla per smentire questa (brutta) impressione. Ieri l’altro, oltre tutto a Milano, si è travestito da Berlusconi evocando il Ponte sullo Stretto di Messina, opera necessaria, eccome, per agganciare Sicilia e Calabria all’Europa, ma che in Giappone o in Norvegia sarebbe già stata realizzata. Ci resta invece una cambiale da pagare: agli oltre 350 milioni spesi in 43 anni per progetti, carotaggi, società i cui dipendenti hanno fatto in tempo ad andare in pensione, se ne aggiungono altri 750 di multa da versare a quanti si erano aggiudicati l’appalto di un Ponte che non c’è. Per la verità non ci sono, ma ci sono ancora, anche le Province. Situazione surreale. Non esistono più come organismo politico, non hanno più un presidente eletto dai sudditi con relativo codazzo di assessori. Ma sopravvivono come pezzo dello Stato, come uffici dove ogni giorno tante persone vanno a lavorare. E non ce l’abbiano con loro, ci mancherebbe, l’occupazione è sacra, ma con gli artefici di una riforma frettolosa e cieca. Al governo c’era un Professore, Mario Monti, cui è sfuggita la rilevanza sociale delle competenze di questi enti: strade e scuole superiori. Prima di annunciare l’abolizione, bisognava decidere a chi assegnare queste funzioni. Non è stato fatto. Ne  è uscito un pateracchio, prodotto tipico del nostro Paese come la pizza e la pasta all’amatriciana. Ma sì, ricordiamoci con affetto del cumulo di rovine cui il terremoto ha ridotto Amatrice. C’è di più e forse la cosa non è stata avvertita: in un disegno di legge approvato prima della pausa estiva dalla Camera e ora sotto esame al Senato, le Province cancellate hanno ottenuto un assegno aggiuntivo di 148 milioni di euro. Ci pare di capire come finirà. In un Paese che prova nostalgia per il  bicameralismo, per il sistema proporzionale fulcro della Prima Repubblica, ci sta che le Province anche se morte vivranno. Amen.

 

 

Deserto industriale sulla sponda magra

 

Per una Valceresio che si sveglia lentamente dall’anestesia alla quale la condanna da anni l’italianissima storia delle ferrovia Arcisate-Stabio (lavori iniziati e piantati e metà, figuraccia con gli svizzeri che li hanno terminati a tempo di record nella loro parte), c’è un’altra valle che si snoda sulla direttrice Laveno-Luino-Ponte Tresa, afflitta da problemi gravissimi. La poca industria che c’è annaspa nel buio. E se si trattasse di crisi temporanea sarebbero tutti disposti a pazientare. Invece no: crollano di schianto, come cedri del Libano colpiti da fulmini di fine estate, aziende di gran nome che erano una garanzia non solo per i paesi  circostanti. Chi poteva immaginare fino a due anni fa il fallimento della IMF di Cremenaga, guidata da un imprenditore di razza, che vendeva grandi impianti per la fonderia ai Paesi del Bric (Brasile, Russia, Cina e India), quando non apriva fabbriche per costruirli sul posto? Al massimo era ipotizzabile una flessione dell’export, una momentanea fermata produttiva. Invece il crac. Improvviso, imprevedibile, drammatico: 150 posti di lavoro in pericolo. Ma nemmeno si poteva pensare che alzasse bandiera bianca, annunciando 120 esuberi, la Mascioni di Cuvio, fondata da due fratelli nel 1982, entrata nella galassia internazionale col gruppo Zucchi, la prima fabbrica tessile che, reagendo allo schianto del settore in quegli anni, si era resa autonomia sul fronte energetico costruendo una centrale termoelettrica allora di assoluta avanguardia.Morale: il Luinese, capoluogo della sponda magra, aggiunge alla disgrazia cronica dell’isolamento geografico, la sciagura attuale della perdita di occupazione. E c’è stata una potente emorragia di manodopera attratta dai salari più alti offerti al di là del confine.  Resiste, con altre piccole e medie aziende, la multinazionale Usag che in questi giorni festeggia i suoi 90 anni. Un grosso punto di domanda sovrasta il futuro del quartier generale della Whirlpool di Comerio che farà presto trasloco a Milano e nel quale lavorano numerosi addetti con casa e famiglia in Valcuvia. Che cosa succede è domanda alla quale non si può dare risposta squisitamente locale. Gli ultimi bollettini economici del Paese segnalano decrescita e si enfatizza, ma per un futuro non prossimo, la scommessa di Renzi su uno dei soliti neologismi che significano tutto e niente: Industria 4.0. Vale a dire una spinta poderosa alla digitalizzazione delle fabbriche, all’ingresso nelle catene di montaggio delle stampanti 3D. Il che comporterà la trasformazione di metalmeccanici di oggi in meccatronici di domani. Addio tute blu, solo camici bianchi. Nel frattempo? Vai a indovinare. E dire che coste e valli del Verbano, ramo lombardo, da fine Ottocento in poi furono luoghi in cui l’industria, più che altrove,  trovò terreno fertile per svilupparsi. Attorno a Luino c’era una vera e propria “Manchester di lago” spinta da capitali svizzeri e tedeschi attratti al di qua della frontiera da paesaggi ameni e costi bassi. Ecco spiegato il retroscena delle sponda magra: qui sorgevano cotonifici, tessiture, tintorie. Qui le famiglie degli Hussy, degli Huber, degli Stelhi-Hit avevano trovato il giusto equilibrio economico per riempire di operai i loro opifici. Luino e dintorni potevano osservare con indifferenza lo sviluppo dell’attività alberghiera sulla sponda grassa. Le loro zone parevano garantite dalle ciminiere, l’ultima delle quali si trova proprio nel recinto della IMF. E’ un monumento storico che speriamo a nessuno venga in mente di toccare. Poi ci fu il declino. Lo straniero se ne tornò in patria con il  bottino realizzato in Italia. Il Verbano lombardo ripiegò sulla vocazione alberghiera, ma pagando lo scotto del ritardo rispetto ai piemontesi. In anni recenti l’industria locale aveva rialzato la testa. La lama della ghigliottina, piombata dall’alto di scenari globali e magari oliata da qualche errore di strategia nostrana, sembra aver chiuso definitivamente un’epoca felice.

 

 

 

Crisi in quota, Varese ha già dato

 

E’ un settembre rosso alle nostre latitudini. Lo ammettono gli industriali: crescita non se ne vede e quando non si cresce c’è il rischio di fermarsi. La novità sono i fallimenti di aziende fino a ieri considerate star. Una volta si ricorreva agli ammortizzatori sociali: cassa integrazione, mobilità, solidarietà, oggi di punto in bianco imprenditori a capo chino portano i libri in tribunale. Ma se accanto a generali segni di crisi presenti in tutti i settori produttivi, spuntano tracce di pericoli imminenti sui radar dell’industria aeronautica, ultimo tesoro identitario della provincia di Varese, è giusto drizzare le orecchie. Per ora c’è il grido d’allarme dei sindacati: ordini non ne arrivano, l’indotto soffre e parliamo di centinaia di piccole e medie aziende. Intanto i nuovi padroni di Finmeccanica hanno sottoposto a potente candeggio i vertici di Alenia Aermacchi e di Agusta-Westland congedando vecchi dirigenti e accentrando a Roma poteri e strategie. Hanno pure cambiato nome al contenitore di tutte le attività industriali del gruppo che ora si chiama Leonardo. Ma chi può obiettare alcunché se dove si progettano aerei ed elicotteri, e non solo, si evoca la memoria dello scienziato simbolo del genio italiano? Insomma, se il frutto conserva intatta la polpa, cambiando la buccia, nulla di drammatico. Il fatto è che questo territorio è scottato dal ricordo dei primi Anni ‘90 quando Varese non perse del tutto le ali, ma se ne vide amputare tratti non trascurabili. E non solo perché dopo la caduta del muro di Berlino era “scoppiata la pace” e l’industria della Difesa ne aveva risentito, anche perché in quell’epoca vennero al pettine i nodi di sciali, sprechi, malversazioni, che avevano reso vulnerabili autentici gioielli industriali. Gioielli costruiti qui, nati nella pianura di Malpensa. Pensate a questo: nel 1903 i fratelli Wright facevano volare per la prima volta l’uomo a bordo di un trabiccolo e quattro anni dopo tra Gallarate e Vizzola Ticino, Giovanni Agusta e Giovanni Caproni mandavano per aria i loro biplani con le ali di tela. Bene, questo patrimonio storico, questo binomio inscindibile tra i sette laghi e gli aerei, poi anche gli elicotteri, improvvisamente rischiarono di bruciare su un falò una ventina di anni fa. Agusta: 1600 posti da tagliare tra Cascina Costa, Vergiate e Sesto Calende (c’era ancora la Siai Marchetti) . Aermacchi: qualcuno meno, ma circa la metà della forza lavoro nello stabilimento di Venegono. Si sprecano gli aneddoti sul periodo nero dell’Agusta che, consegnata all’Efim (Partecipazioni statali) era stata spolpata viva da manager pubblici specialmente in quota Psi.  Il più grande errore della mia vita, aveva ammesso Giuliano Amato. Non c’erano i soldi per pagare gli stipendi, figuriamoci quelli per regolare i conti della mensa aziendale. Il fornitore Ernesto Pellegrini, ex patron dell’Inter, era sotto di un miliardo. “Ma credette in noi”, ci raccontò Amedeo Caporaletti, il manager del salvataggio di Agusta, “mi disse: tornerete in pista e io avrò quello che mi dovete”. Altro che ritorno in pista: alleggerita di tanta zavorra, Agusta si è internazionalizzata, acquistando la britannica Westland e avviando con Bell in America la costruzione del convertiplano, quel minotauro d’acciaio metà aereo metà elicottero che rappresenta il futuro del volo. E che dà ancora qualche problema. Ma quanta sofferenza in quegli anni, quanti posti di lavoro evaporati, non solo nelle fabbriche varesine. All’Aermacchi stesso scenario: il vecchio capo del personale Giuseppe Monzoni convocava per il licenziamento persone  che aveva assunto da qualche anno, gli operai dicevano al presidente Giorgio Brazzelli: “Non faremo mai più un aereo completo, al massimo diventeremo terzisti”. Anche a Venegono ci fu la resurrezione nell’arco di dieci anni e nel 2004 l’azienda fu fiera di presentare all’allora premier l’addestratore “346”, l’erede del “339” che è il velivolo delle Frecce Tricolori. Chi era il premier? Berlusconi che se ne uscì con una delle sue battute: “Sarò il vostro addetto alle vendite, girerò il mondo col campionario dei vostri aerei”. In parte fu di parola: va detto. Ora queste ombre pesano sulla memoria collettiva, è chiaro. E se si risente parlare di ali in pericolo, la reazione è: Varese ha già dato. Non possono non tenerne conto a Roma. Incrociamo le dita.

Lo strano caso di Stefano B.

 

“Che fine ha fatto Stefano Binda?” si chiedeva la scorsa settimana un nostro lettore. La risposta l’ha avuta qualche giorno dopo da una fotografia pubblicata dai giornali: una larva d’uomo, 27 chili persi in otto mesi di carcere. Di uguale, rispetto al giorno dell’arresto, solo gli occhiali da presbite a cavallo di uno sguardo cupo. Sono i segni inequivocabili di un tormento profondo che divora, insieme con l’anima, le membra di una persona di 50 anni. E’ la manifestazione esteriore o del suo atroce rimorso per aver ucciso con 29 coltellate nel gennaio del 1987 Lidia Macchi, sua amica, ciellina come lui all’epoca, in quella maledetta stradicciola alla periferia di Cittiglio. Oppure è il disagio non meno terribile di chi c’era, magari ha assistito alla carneficina, e si ostina pervicacemente a tacere il nome dell’assassino, sfidando il teorema dell’accusa fondato, non sulle difficili prove a quasi 30 anni dai fatti, ma su una messe di indizi. Uno su tutti: la lettera spedita alla famiglia il giorno dei funerali di Lidia, la grafia, ma anche i contenuti, compatibili con la scrittura e la personalità di Stefano Binda. Siamo a questo dopo il colossale impiego di energie professionali e di risorse materiali in un anno e mezzo d’inchiesta. Non c’è branca della criminologia forense che non sia stata messa in gioco: da mesi i resti della vittima stanno in una cella frigorifera di un istituto di medicina legale, un intero parco di Varese è stato rivoltato a caccia dell’arma del delitto. Siamo a questo e secondo il procuratore generale di Milano Carmen Manfredda, che a dicembre lascerà la toga dopo una bella carriera, siamo a un punto sufficiente a giustificare il rinvio a giudizio. Questa è la sensazione, dopo il drammatico  interrogatorio di Binda. E ciò, nonostante le numerose perizie non abbiano ancora dato risposte: a luglio erano quasi trecento i reperti da esaminare. Ci vuole ancora tempo, tanto tempo. Ma la formula dell’incidente probatorio utilizzata per compiere indagini irripetibili garantisce che prove eventuali potranno legittimamente entrare nel dibattimento in aula. “Ci manca Stefano Binda”, ha scritto di recente alla Prealpina un professore di Brebbia, paese dell’imputato, riferendosi a un festival culturale che egli era solito organizzare a settembre. Da  qui si evince come la corrente scettica o addirittura innocentista non abbandoni l’”intellettuale dannato” che divorava libri, era un leader riconosciuto all’interno di CL, ma in una notte di gelo ha potuto uccidere Lidia dopo averla amata. Uno scrittore di gialli titolerebbe: “Lo strano caso di Stefano B.” L’accusa, non avvezza a trame romanzesche, ma a rilievi giudiziari, resta convinta che dopo almeno due abbagli (prima un test del Dna su un prete nel 1987, poi brevi indagini su un serial killer nel 2013) la pista sia quella giusta. Punti a favore dell’imputato: se ha scritto la famosa lettera, la saliva con la quale è stata chiusa la busta non è la sua. Punti a sfavore: la testimonianza, dopo 30 anni, di una sua amica dei tempi andati, anzi di una sua ex. E poi la vita spericolata di Stefano, droga, disagio sociale, mai un lavoro, centinaia di cartelle cliniche, soprattutto psichiatriche, a dispetto di un’intelligenza sopra la media. Infine le fragilità dell’inchiesta: il movente innanzitutto (perché quella furia omicida?) e il luogo del delitto. Tutto si è compiuto nel piccolo spazio vitale di una Panda, il rapporto sessuale, la lite dopo l’amore, le 29 coltellate? E dov’è finito il sangue? Se ne sono trovate poche macchie. Il freddo di quella notte di gennaio ha suturato le ferite, dice qualche esperto. Torna il dubbio: Binda chi sta proteggendo? E se ne aggiunge un altro: qualcuno protegge ancora lui? No, la sensazione è cambiata, rispetto a mesi nei quali tutti i media nazionali s’occupavano della storia. Forse Binda è rimasto solo con i suoi tormenti inconfessabili. A molti va bene così.

 

Chi era mai questo Furia?

 

“Chi erano mai questi Beatles?” è il ritornello di una canzone degli Stadio. Parla di una ragazza di “quindici anni d’età” che voleva conoscere, non solo a parole, i simboli del mondo dei grandi.  Con le dovute proporzioni, abbiamo pensato che a qualcuno dei nostri ragazzi potrebbe succedere un giorno di chiedere: “Chi era mai questo Salvatore Furia?”. Il tempo passa volando: ciò che due-tre generazioni hanno vissuto in diretta, diventa subito ignoto ali eredi. E allora un modo efficace di consolidare pezzi di storia è raccontare “a chi non c’era” fatti e personaggi. Sabato prossimo il Professore verrà ricordato dagli Amici del Sacro Monte che hanno organizzato un evento: sarebbe bello vi partecipassero coloro ai quali sfugge, per ragioni di anagrafe, quanto ha fatto e lasciato in dote alle nostre contrade un migrante catanese sbarcato alle falde del Campo dei Fiori,  avendo negli occhi il profilo amico dell’Etna. Osservatorio astronomico con tre cupole,  scuola di botanica, un centro d’ascolto dei terremoti, un’intensa attività divulgativa delle scienze naturali condotta ovunque, in luoghi pubblici e privati: e queste sono solo le opere. Poi vengono le battaglie dei tempi in cui, sentendo la parola ecologia, si andava a consultare il vocabolario. Notare che dei Verdi il Prof diceva: “Mi sono simpatici, ma alle denunce preferisco la lotta che ottiene risultati”.  E tra le battaglie ne figura una che non è stata mai accompagnata da chiasso sui giornali, che non ha dato scandalo: si è rivelata efficace forse perché silenziosa, condotta a tavolino, lontano dalla piazza. Parliamo del salvataggio del Campo dei Fiori dagli appetiti cementiferi che negli anni del miracolo furono implacabili. Si critica chi non ha fatto nulla per Varese negli ultimi trent’anni. La storia ci insegna che a volte l’inerzia è meglio del danno. Se la vediamo ancora così la nostra montagna, avvolta in un enorme polmone verde, integro, è per la severa e nello stesso tempo discreta guardia montata da Furia. Il quale, chiamandosi Salvatore, si è calato nel proprio nome di battesimo, ottenendo che l’istituzione di un Parco rendesse invulnerabile quanto altrove è caduto sotto i colpi di spregiudicati picconatori. Solo per questa impresa, il Prof merita la riconoscenza collettiva che di solito si attribuisce al combattente o al benefattore. Il primo dà la vita per un ideale, il secondo la dedica al servizio di  una missione. Furia se n’è andato sei anni fa il 12 agosto. Ha avuto titoli e benemerenze: il premio San Francesco per la comunicazione conferitogli ad Assisi lo commosse nel profondo. Egli è stato soprattutto un grande divulgatore, uno straordinario educatore e quella pergamena rendeva merito a chi a Varese si era inventato una cattedra popolare dalla quale dispensare conoscenza sostenibile. Quanti allievi di Furia hanno fatto carriera, anche accademica, dopo aver passato le notti a catturare comete nel buio siderale o a studiare l’acidità della pioggia nei pentoloni di raccolta del Centro geofisico. Ora, non abbiamo dubbi che al più presto (forse è già tardi) la municipalità dedicherà una via, una piazza, al Professore. Meglio sarebbe un luogo-simbolo frequentato da tanta gente, considerato che le sue previsioni del tempo recitate come poesie quotidianamente al Gazzettino padano della Rai avevano un’audience media di un milione e mezzo di lombardi. Alla morte di Furia Aldo Grasso salutò dalle pagine nazionali del Corriere della sera il “più affidabile dei meteorologi che conosceva solo il riserbo della radio regionale”. Ma ci si potrebbe attendere dell’altro per un personaggio amato: con un carattere “furioso”, ma amato. Ci si potrebbe attendere che a perpetuarne la memoria fosse l’università verso la quale il Professore provava deferenza, non soggezione: in fondo è stato uno che ha insegnato molto a tanti, pur essendo il suo un ateneo senza ermellini e senza titolo. Qualche idea? La lasciamo ai rettori, ai docenti. Volendo il modo c’è. E siamo certi che lo si troverà.

A Cernobbio col caro estinto

Si torna a Cernobbio e per molti degli  assidui frequentatori del Forum Ambrosetti sarà inevitabile provare una strana sensazione: la sensazione del morto in casa, nella peggiore delle ipotesi, del caro amico ricoverato in ospedale con prognosi infausta, nella migliore. Non c’è autorevole fabbrica del pensiero che, più di Villa d’Este dal 1975 ai nostri giorni, abbia progettato e promosso la costruzione dell’Unione europea. Monti, Trichet, Almunia, Lagarde; gli eurocrati, non solo sono stati sempre protagonisti, hanno vittoriosamente influenzato il confronto di idee che ogni anno si svolge al massimo livello sul quel ramo del lago di Como. Facile constatare che essi hanno avuto buon gioco in un’epoca di confusione politica, di ricambio generazionale dei leader, di feroce recessione economica. Nel tempo è stata messa al sicuro una certezza: ci avrebbe salvato dal baratro una realtà continentale unita e forte. E si è avuta l’impressione della nascita di un salotto un po’ esclusivo nel quale ogni problema delle singole nazioni, prima tra tutte l’Italia per ragioni di ospitalità, veniva discusso in una prospettiva europea. Ma improvvisamente l’edificio si è accartocciato come la scuola di Amatrice appena ristrutturata a suon di migliaia di euro per resistere ai terremoti. Improvvisamente c’è stata la Brexit: uno dei membri più potenti del club, il Regno Unito, ha detto che con l’integrazione continentale non vuole avere nulla da spartire. E l’incendio ha attraversato la Manica investendo la Francia, l’Italia, la traballante Spagna. Carta straccia tutto quanto hanno predicato a Cernobbio da presidenti della commissione europea e della Bce? Se dovessimo dire qual è il simbolo dei raduni di Villa d’Este, non avremmo esitazione a indicarlo nel suono di un magico gong che chiama in conclave i potenti della Terra perché ciascuno esponga la propria opinione in un campo neutro e lontano dai taccuini dei giornalisti, che aspettano fuori. Ma se ci chiedessero di aggiornare la metafora, inevitabilmente penseremmo a una campana che suona mesta per annunciare l’indietreggiamento rispetto alle idee dei padri costituenti riuniti a Ventotene. Col rischio di una deriva dei nazionalismi.Chi ha sbagliato le profezie, le analisi e dove le ha sbagliate? Sicuramente non si può gettare la croce sulle spalle di Cernobbio, la cui missione degli ultimi 40 anni è stata costruire una cattedra per internazionalizzare il profilo delle classi dirigenti. I partecipanti al Forum arrivavano dalle Americhe o dall’Asia e scoprivano che sulle rive di un lago si era materializzato un osservatorio di rilevanza globale, utile negli anni della crescita e dell’ottimismo reganiano e berlusconiano, indispensabile negli anni delle grandi crisi. Quanto è accaduto dal disfacimento dell’Unione Sovietica in poi è qualcosa che l’ambasciatore Sergio Romano ha definito: catastrofe geopolitica.Ma se è vero che altri ambasciatori, quelli della conoscenza multidisciplinare, cioè i consueti habitué di Cernobbio, devono avere il dono anche dell’autocritica, beh qualche discorsetto su che cosa è, anzi non è, l’Europa, è lecito aspettarselo.Vero: la Brexit può essere stata la vittoria della demagogia, non della democrazia, del populismo, non del popolo. Ma si deve parlare anche dei difetti della creatura allevata a costi proibitivi nelle stanze di Bruxelles e di Strasburgo. Si deve dire che l’Europa non può essere solo la moneta unica, oltre tutto sorda (la moneta unica) ai richiami disperati in arrivo da alcuni degli stati membri: pensiamo alla tragedia dei profughi. Si deve dire che l’Europa non può essere perdente nei parlamenti e nelle chiese. E si deve dire che non basta l’idea, il concetto: un’Europa non governata, un’Europa che svende la sua civiltà come vediamo fare ogni qual volta, per non urtare sensibilità altrui, nascondiamo i nostri simboli, la nostra cultura, beh questa è un’Europa socialmente inutile. E pericolosamente vulnerabile. Ci sono leader che spiegano questi argomenti puntando alla pancia dei cittadini, per ragioni di bassa politica. A Cernobbio sfilano le migliore intelligenze del mondo. A loro il compito di ingoiare qualche rospo e di rimetterci in carreggiata.