Sanità lombarda, quello che la riforma non dice

La riforma della sanità lombarda firmata Roberto Maroni è una sfida coraggiosa. Quando si parte dal gradino di una sbandierata eccellenza è difficile salire, più facile scendere. Ma questo è un pericolo che nessuno osa ipotizzare. Se la qualità del servizio offerto fosse riparametrata al ribasso, la delusione colpirebbe non la Lombardia, ma il Paese intero: sono circa 500mila, infatti, i pendolari della salute che ogni anno salgono su un treno o su un aereo per farsi curare a Milano, a Bergamo, a Brescia, a Varese. La corruzione, i privilegi concessi ad alcuni centri gestiti da amici degli amici, il caso inquietante della clinica Santa Rita, dove le sale operatorie non funzionavano per necessità ma spesso per lucro, non hanno depauperato la fiducia riposta nelle nostre strutture. Se c è stato del marcio in Lombardia – e vorremmo essere certi di poter coniugare il verbo al passato – scandali veri o presunti non hanno messo in discussione il primato del sistema. Come mantenerlo tale questo primato, come abbassare i giri del motore, senza fargli perdere efficienza e potenza? Fabio Rizzi, medico varesino, presidente della commissione regionale della sanità, ha anticipato alla Prealpina nei giorni scorsi, le linee guida delle riforma. Asciugando il numero dei piccoli ministeri della salute, le Asl, accorpando aziende ospedaliere, trasferendo dagli ospedali al territorio prestazioni e cure, unificando sanità e welfare, cioè medicina e società, la macchina viaggerà di più e consumerà meno carburante.  Avremo reparti di pronto soccorso meno intasati, minori attese  per visite e prestazioni, sentiremo di meno la carenza epocale di posti-letto dato che gli ospedali tra gli anni ’80 e ’90 si sono notevolmente accorciati e indietro non si torna. Diagnosi e prognosi sono di pubblico dominio da tempo, ma in un Paese nel quale la distanza più breve tra due punti non è una linea retta, bensì un arabesco, stampare un referto, nero su bianco, è un ottimo risultato. Già s’avvertono echi di polemiche, qualcuno da scontentare ci sarà sempre, l’importante è procedere. Quello che la riforma non svela, almeno fin qui, è che cosa accadrà nella quotidianità della gestione. Maroni tempo fa reagì  all’annuncio di nuovi tagli ai bilanci della sanità regionale dicendo che avrebbe chiuso dieci ospedali. Era una minaccia, un impeto d’ira, una reazione a qualcosa di ingiusto. Ma se l’invettiva del governatore diventasse un progetto, studiato scientificamente, concordato con le amministrazioni locali, elaborato da consulenti neutrali, non condizionato dagli umori di questo o quel consiglio comunale, ci sarebbe da compiacersi, non da preoccuparsi. Chiudere è un modo di dire. In Italia al massimo si accosta qualche portone. Ma servono due tre-punti nascita in un raggio di venti chilometri? Serve che gli ospedali periferici replichino in sedicesimo specializzazioni già offerte da quelli centrali? Serve che tutti facciano tutto, senza una rigorosa distribuzione delle competenze, all’ombra di doppioni territoriali, quando non sono triploni? Non serve. Anche questo è di pubblico dominio. La sanità è stata affidata a manager che nell’industria privata rispondono delle loro decisioni al mercato, giudice supremo, e a un azionista di controllo, che è il cassiere. Hanno carta bianca, se si rivelano incapaci vengono mandati via. La rivoluzione nelle aziende ospedaliere e sanitarie è stata lasciata a metà: gli ordini ha continuato a darli un’entità indistinta che da lontano vede e non provvede. Per questo parlavamo all’inizio di sfida coraggiosa. Perché è venuto il momento di provvedere.

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