Anche se morte vivranno

 

Mettiamola così: l’elezione del consiglio provinciale, assemblea di un ente che è stato abolito, ma c’è ancora, assomiglia al gioco del Monopoli. Chi sta al tavolo compra e vende case su un cartellone e decide chi le deve abitare. Agisce come se fosse Donald Trump, in realtà non ha un euro in tasca e non l’avrà, bisogna dirlo, nemmeno se dovesse diventare proprietario dell’immobile. Cioè nel caso s’accomodasse su una poltrona. Ma allora perché tutto questo movimento attorno a una fiction che a Varese coinvolge 5 liste, 78 candidati, 16 posti a sedere e più di 1700 elettori? Perché da fine agosto non è passata settimana in cui qualcuno dal Palazzo non abbia inviato un sms ricordando la data in cui si apriranno le urne, il 15 ottobre? Semplice: perché, come il Monopoli, il gioco è di potere. E con l’aria che tira nel Paese, questo potere ha bisogno di essere misurato giorno per giorno. Quale occasione più propizia di un appuntamento elettorale, che esclude il popolo e interessa solo le segreterie dei partiti, per usare il termometro? A Varese c’è appena stato un ribaltone: hanno perso le Comunali forze politiche che avevano governato ininterrottamente larghe fette del territorio da 23 anni. Il fatto  ha avuto risonanza nazionale perché si è verificato a queste latitudini e non in altre, dove è accaduto esattamente il contrario. Ecco spiegato l’arcano. Il voto per Villa Recalcati, espresso non da cittadini ma da assessori e sindaci in carica, è una sorta di allenamento in vista di elezioni nazionali che potrebbero essere anticipate. Dipende dall’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre, quello sì aperto al popolo. Dovrebbe essere un momento di democrazia reale: si chiede alle gente di decidere se andare avanti con quel mostro a due teste che è il bicameralismo oppure cambiare rotta con regole parlamentari più snelle e si spera più efficienti. In realtà è un derby giocato sulla testa di Renzi. Che non fa nulla per smentire questa (brutta) impressione. Ieri l’altro, oltre tutto a Milano, si è travestito da Berlusconi evocando il Ponte sullo Stretto di Messina, opera necessaria, eccome, per agganciare Sicilia e Calabria all’Europa, ma che in Giappone o in Norvegia sarebbe già stata realizzata. Ci resta invece una cambiale da pagare: agli oltre 350 milioni spesi in 43 anni per progetti, carotaggi, società i cui dipendenti hanno fatto in tempo ad andare in pensione, se ne aggiungono altri 750 di multa da versare a quanti si erano aggiudicati l’appalto di un Ponte che non c’è. Per la verità non ci sono, ma ci sono ancora, anche le Province. Situazione surreale. Non esistono più come organismo politico, non hanno più un presidente eletto dai sudditi con relativo codazzo di assessori. Ma sopravvivono come pezzo dello Stato, come uffici dove ogni giorno tante persone vanno a lavorare. E non ce l’abbiano con loro, ci mancherebbe, l’occupazione è sacra, ma con gli artefici di una riforma frettolosa e cieca. Al governo c’era un Professore, Mario Monti, cui è sfuggita la rilevanza sociale delle competenze di questi enti: strade e scuole superiori. Prima di annunciare l’abolizione, bisognava decidere a chi assegnare queste funzioni. Non è stato fatto. Ne  è uscito un pateracchio, prodotto tipico del nostro Paese come la pizza e la pasta all’amatriciana. Ma sì, ricordiamoci con affetto del cumulo di rovine cui il terremoto ha ridotto Amatrice. C’è di più e forse la cosa non è stata avvertita: in un disegno di legge approvato prima della pausa estiva dalla Camera e ora sotto esame al Senato, le Province cancellate hanno ottenuto un assegno aggiuntivo di 148 milioni di euro. Ci pare di capire come finirà. In un Paese che prova nostalgia per il  bicameralismo, per il sistema proporzionale fulcro della Prima Repubblica, ci sta che le Province anche se morte vivranno. Amen.

 

 

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