Deserto industriale sulla sponda magra

 

Per una Valceresio che si sveglia lentamente dall’anestesia alla quale la condanna da anni l’italianissima storia delle ferrovia Arcisate-Stabio (lavori iniziati e piantati e metà, figuraccia con gli svizzeri che li hanno terminati a tempo di record nella loro parte), c’è un’altra valle che si snoda sulla direttrice Laveno-Luino-Ponte Tresa, afflitta da problemi gravissimi. La poca industria che c’è annaspa nel buio. E se si trattasse di crisi temporanea sarebbero tutti disposti a pazientare. Invece no: crollano di schianto, come cedri del Libano colpiti da fulmini di fine estate, aziende di gran nome che erano una garanzia non solo per i paesi  circostanti. Chi poteva immaginare fino a due anni fa il fallimento della IMF di Cremenaga, guidata da un imprenditore di razza, che vendeva grandi impianti per la fonderia ai Paesi del Bric (Brasile, Russia, Cina e India), quando non apriva fabbriche per costruirli sul posto? Al massimo era ipotizzabile una flessione dell’export, una momentanea fermata produttiva. Invece il crac. Improvviso, imprevedibile, drammatico: 150 posti di lavoro in pericolo. Ma nemmeno si poteva pensare che alzasse bandiera bianca, annunciando 120 esuberi, la Mascioni di Cuvio, fondata da due fratelli nel 1982, entrata nella galassia internazionale col gruppo Zucchi, la prima fabbrica tessile che, reagendo allo schianto del settore in quegli anni, si era resa autonomia sul fronte energetico costruendo una centrale termoelettrica allora di assoluta avanguardia.Morale: il Luinese, capoluogo della sponda magra, aggiunge alla disgrazia cronica dell’isolamento geografico, la sciagura attuale della perdita di occupazione. E c’è stata una potente emorragia di manodopera attratta dai salari più alti offerti al di là del confine.  Resiste, con altre piccole e medie aziende, la multinazionale Usag che in questi giorni festeggia i suoi 90 anni. Un grosso punto di domanda sovrasta il futuro del quartier generale della Whirlpool di Comerio che farà presto trasloco a Milano e nel quale lavorano numerosi addetti con casa e famiglia in Valcuvia. Che cosa succede è domanda alla quale non si può dare risposta squisitamente locale. Gli ultimi bollettini economici del Paese segnalano decrescita e si enfatizza, ma per un futuro non prossimo, la scommessa di Renzi su uno dei soliti neologismi che significano tutto e niente: Industria 4.0. Vale a dire una spinta poderosa alla digitalizzazione delle fabbriche, all’ingresso nelle catene di montaggio delle stampanti 3D. Il che comporterà la trasformazione di metalmeccanici di oggi in meccatronici di domani. Addio tute blu, solo camici bianchi. Nel frattempo? Vai a indovinare. E dire che coste e valli del Verbano, ramo lombardo, da fine Ottocento in poi furono luoghi in cui l’industria, più che altrove,  trovò terreno fertile per svilupparsi. Attorno a Luino c’era una vera e propria “Manchester di lago” spinta da capitali svizzeri e tedeschi attratti al di qua della frontiera da paesaggi ameni e costi bassi. Ecco spiegato il retroscena delle sponda magra: qui sorgevano cotonifici, tessiture, tintorie. Qui le famiglie degli Hussy, degli Huber, degli Stelhi-Hit avevano trovato il giusto equilibrio economico per riempire di operai i loro opifici. Luino e dintorni potevano osservare con indifferenza lo sviluppo dell’attività alberghiera sulla sponda grassa. Le loro zone parevano garantite dalle ciminiere, l’ultima delle quali si trova proprio nel recinto della IMF. E’ un monumento storico che speriamo a nessuno venga in mente di toccare. Poi ci fu il declino. Lo straniero se ne tornò in patria con il  bottino realizzato in Italia. Il Verbano lombardo ripiegò sulla vocazione alberghiera, ma pagando lo scotto del ritardo rispetto ai piemontesi. In anni recenti l’industria locale aveva rialzato la testa. La lama della ghigliottina, piombata dall’alto di scenari globali e magari oliata da qualche errore di strategia nostrana, sembra aver chiuso definitivamente un’epoca felice.